Quale buona economia per le aree montane? Un percorso di ricerca dalle Alpi agli Appennini


Dighe e ferriere trasformate in percorsi di arte e cultura per una nuova ruralità verticale, centri storici ristrutturati da artisti e architetti, boschi devastati dalla tempesta trasformati in gallerie d’arte all’aria aperta, il recupero dei paesaggi storici dell’alta montagna.

Sono solo alcuni dei tanti progetti che stanno fiorendo e che stanno caratterizzando un percorso di trasformazione delle zone montane italiane dalle Alpi alla Sicilia. A metterli in evidenza è un progetto di ricerca congiunto di Fondazione Eni Enrico Mattei (FEEM) e Dipartimento di Scienze Economiche dell’Università degli Studi di Verona dal titolo “Quale sostenibilità per le aree montane in Italia? Il ruolo guida degli SDGs verso un nuovo modello di sviluppo”.

“La montagna – spiegano Laura Cavalli, responsabile del programma di ricerca Agenda 2030 e Sviluppo Sostenibile FEEM e Veronica Polin, ricercatrice dell’Università degli Studi di Verona ed esperta di politiche pubbliche per il benessere e la sostenibilità dei territori, che insieme sono l’anima del progetto – a differenza degli oceani e delle foreste, non è destinataria in modo diretto ed esplicito di nessuno dei 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030. Eppure si tratta di un ambito territoriale con un’identità molto specifica, particolarmente rilevante per l’Italia e terreno fertile nella promozione di un nuovo modello di sviluppo che sia anche e soprattutto sostenibile”.

Se per il contesto italiano è possibile, come ha dimostrato l’SDSN Italia SDGs City Index sviluppato da FEEM, avere indicatori su molteplici dimensioni della sostenibilità anche (seppur con fatica) disaggregati a livello urbano, nelle zone montane reperire dati per la costruzione di indicatori multidimensionali è molto difficile.

A ciò si aggiunge una scarsa cultura del dato e una visione di sviluppo ancora molto ancorata alla dimensione economica che porta i policy maker locali a prendere decisioni rilevanti per la transizione ecologica, senza un’adeguata e rigorosa valutazione degli effetti che ne potrebbero derivare.

Inizialmente il progetto di ricerca si prefiggeva la costruzione di un SDGs Index specifico per le aree montane e di supporto nell’individuazione, definizione e implementazione di azioni di sviluppo sostenibili locale. Ma questo tipo di analisi per le aree montane non è possibile: l’assenza di indicatori elementari legati ai target dell’Agenda 2030 e la rilevanza degli aspetti sociali e culturali della comunità e dell’identità, anche economica, di quei luoghi ha reso necessario fare un passo indietro per poter riflettere su quale fosse il percorso di ricerca-azione più appropriato.

Le ricercatrici hanno quindi deciso di puntare a “imparare” dai processi in atto nelle aree montane per cogliere l’essenza di queste traiettorie senza calare dall’alto ricette preconfezionate di modelli di sviluppo sostenibile. 

Osservare, ascoltare e far emergere le evidenze

Un processo progettuale che conta. Tutto è iniziato nel 2020 e ora la ricerca si trova esattamente a metà del suo percorso. “In questi mesi di attività – racconta Laura Cavalli – ci siamo accorte che avevamo intrapreso un progetto molto ambizioso: raccontare la sostenibilità per queste aree evidenziando solo aspetti quantitativi era riduttivo, non solo perché non sono disponibili dati con un livello di dettaglio sufficiente, ma anche perché questi territori raccontano storie, realtà articolate e hanno un patrimonio intrinseco.” “Si tratta di un progetto molto particolare nel corso del quale – prosegue Veronica Polin – ci siamo messe in gioco anche come economiste, cercando di condividere tutti i nostri saperi. Stare nel processo richiede di essere aperti all’inatteso e all’incertezza, approccio molto diverso dalle classiche ricerche economiche accademiche”.

“Siamo consapevoli di non essere le uniche ad occuparsi di questi temi. Altri ricercatori hanno lavorato o si stanno occupando delle aree montane, ma quello che ci differenzia profondamente dagli altri è l’impostazione metodologica, la visione. Infatti, mentre nella maggior parte dei casi, o si prova ad offrire soluzioni ai diversi problemi riscontrati, oppure si enfatizzano i punti di criticità di quelle aree, noi ci siamo poste l’obiettivo di porre lo sguardo sui luoghi e di raccontare la vivacità economica esistente”. “Noi – le fa eco Laura Cavalli – stiamo osservando la transizione mentre avviene”.

Si tratta, in altri termini, di un processo evolutivo. “Spesso – dice Polin – sentiamo dire dagli attori del territorio che ci sono energie ed esperienze, che noi abbiamo definito ‘semi di futuro’; in quelle aree c’è molta gente che si sta dando da fare. Per questo ci siamo poste inizialmente come osservatrici, per poi agevolare -attraverso il nostro racconto- l’emersione della transizione in atto, evidenziando chi e cosa c’è dentro questo processo, chi sono i protagonisti della transizione, cosa si nasconde dentro ai semi di futuro che stanno germogliando tra le montagne italiane e quali sono le motivazioni che spingono le persone ad avviare percorsi di sviluppo locale”.

L’iniziativa ha preso in esame una serie di regioni pilota, in cui sono presenti diverse declinazioni di area montana: Lombardia, Veneto, Marche, Basilicata e Sicilia. Le due ricercatrici hanno in sintesi avviato, nel corso di questi mesi di attività, un meticoloso lavoro di emersione di queste realtà e di intercettazione dei segnali di innovazione; hanno inoltre coinvolto diversi saperi multidisciplinari contattando altri esperti che sono stati chiamati a fornire letture alternative dei diversi aspetti della sostenibilità montana. Il tutto grazie a una serie di workshop accademici, di letture diverse del sistema territoriale montano e delle comunità che ne fanno parte.

Nel corso di questo cammino di ricerca hanno incontrato tanti protagonisti che vivono e lavorano in questi territori. “Il nostro lavoro – spiega Polin – non è ancora finito e non vuole limitarsi certo a definire una mappa. Vogliamo scoprire quali siano gli ingredienti di buona economia che i “montanari” stanno utilizzando per promuovere uno sviluppo sostenibile sensibile al benessere del territorio e della comunità. Una volta individuati questi ingredienti torneremo al nostro ruolo di studiose-economiste per elaborare riflessioni teoriche e di policy. Da esempi di buona economia è possibile fare buone politiche: questo è il nostro motto”.

Il progetto di ricerca si è trasformato e, nel corso della sua realizzazione, ha assunto anche le sembianze di un vero e proprio hub di esperienze che raccontano in maniera nuova e diversa il bisogno di trasformazione delle aree montane del nostro Paese, alla ricerca di modelli che siano altro rispetto alle abituali piste da sci.

Così, i tanti semi hanno trovato uno spazio, seppur virtuale, negli incontri organizzati dalle due ricercatrici. Come per esempio quelli dell’Associazione Postindustriale Ruralità che ha realizzato un progetto di recupero delle aree e dei siti industriali dismessi della Val Camonica e – tra dighe e impianti idroelettrici, parchi archeologici che custodiscono alcune tra le più preziose testimonianze dell’arte rupestre e orti idroponici costruiti con la lana – hanno ridefinito l’identità di una valle importante della provincia di Brescia.

Tra i tanti progetti che sono emersi in questo viaggio virtuale delle due ricercatrici tra le montagne italiane c’è anche quello del Cammino delle Terre Mutate, esteso per oltre 250 chilometri che si snodano lungo l’Appenino Centrale da Fabriano nelle Marche e giù a sud fino a L’Aquila.

Nel suo percorso il Cammino incontra a sua volta tanti altri progetti come per esempio Monte Vector, un’associazione di promozione sociale a favore della riqualificazione territoriale, fondata da Stefano e Elena che hanno deciso di resistere ad Arquata del Tronto, dopo il sisma del 2016 e di combattere in nome del diritto di abitare.

A Nord, sulle Alpi veronesi, un altro progetto ha come obiettivo quello di raccontare e valorizzare il paesaggio: è quello degli Alti Pascoli della Lessinia che ha sostenuto, con successo, l’iscrizione nel registro nazionale dei paesaggi storici.

L’Alta Lessinia è la zona della montagna veronese, e in parte trentina e vicentina, dove prati e contrade lasciano spazio a malghe e pascoli. È qui che probabilmente viene custodito il più importante patrimonio di questa terra, formato di generazione in generazione da allevatori, pastori e boscaioli che, utilizzando in maniera sostenibile le risorse del territorio, lo hanno modellato e plasmato, dando vita a qualcosa di unico e irripetibile: il Paesaggio degli Alti Pascoli.

Un territorio impiegato fin dal neolitico per la pastorizia di greggi transumanti, passando dall’azione dei boscaioli Cimbri di provenienza bavarese e tirolese, fino ad arrivare all’attuale utilizzo da parte di allevatori, principalmente di vacche per la produzione di latte e carne. Un’area in cui si sono sviluppati importanti esempi di biodiversità quali la pecora brogna della Lessinia, prodotti riconosciuti e apprezzati come i formaggi di malga e il Monte Veronese di Malga (un Monte Veronese d’allevo prodotto con latte d’alpeggio presidio Slow Food), o piatti tradizionali che stanno riscuotendo un grande successo nell’offerta gastronomica locale come gli “gnocchi sbatui”, meglio conosciuti come gnocchi di malga.

Proprio per tutelare tutto questo patrimonio, le amministrazioni locali, insieme ad aziende associate e a operatori, hanno dato vita a una associazione che è riuscita ad ottenere il riconoscimento della specificità di questo prezioso territorio.

Nel cuore dell’antico centro storico di Favara, un grande paese a pochi chilometri a Nord Ovest di Agrigento è nato un altro importante progetto che è entrato a far parte del lavoro delle due ricercatrici: il Farm Cultural Park. È un vero e proprio centro culturale che negli anni ha cambiato il volto della città che lo ospita. Un piccolo caseggiato in zona Sette Cortili, tra case dirute e abbandonate, è ora completamente ristrutturato e trasformato in un centro che irradia su tutto il territorio iniziative con ricadute artistiche, sociali e culturali. Il progetto nasce a valle di una tragedia: il crollo di una casa del centro storico in cui due bambini, Marianna di 14 anni e Chiara di soli 4 anni persero la vita.

Da allora un gruppo di cittadini: Florinda, Andrea, Carla e Viola hanno iniziato la trasformazione del quartiere e ora, a distanza di anni i frutti di quella operazione sono ampiamente visibili. Come pure sono visibili quelli lasciati più a nord in Provincia di Matera a Grottole, dal progetto “Wonder Grottole”. Attraversato dalla via Appia, un tempo Grottole era crocevia di persone ed economie da nord a sud. Eppure oggi il suo centro storico conta solo 300 abitanti (oltre il 60% è over 70) e 629 case abbandonate. Durante gli ultimi sessant’anni, la popolazione di Grottole è migrata verso città italiane ed estere più grandi, dando avvio a un rapido spopolamento del paese, soprattutto del suo borgo antico. Wonder Grottole prende avvio come un progetto sperimentale per coinvolgere e mettere in relazione persone ed energie provenienti da tutto il mondo.

Un progetto visionario insieme al quale, nel 2019, è stato promosso il progetto Italian Sabbatical, finalizzato al rilancio del centro storico di Grottole. Grazie a Italian Sabbatical si sono aperte le porte del borgo al mondo, offrendo a 5 volontari internazionali, la possibilità di vivere tre mesi estivi nel borgo, e toccare con mano cultura e tradizioni dei suoi abitanti. La ricerca di 5 volontari ha fatto rapidamente il giro del mondo: più di 280.000 candidature in un solo mese, oltre 1500 articoli sulla stampa internazionale e centinaia di migliaia di visualizzazioni sui social network.

Anche l’arte può diventare un enzima di sviluppo territoriale, un agente che è in grado di catalizzare progetti di recupero non solo nei centri abbandonati del Sud ma anche nelle foreste devastate dalle tempeste delle alpi Vicentine. È il caso del progetto SelvArt nato nel 2016 su iniziativa di Marco Martelar che a Mezzaselva di Roana ha costruito nel bosco un vero e proprio parco dove sculture, istallazioni, opere d’arte nella natura.

La tempesta “Vaia” del 28 ottobre 2018 in due ore sradicò circa 14 milioni di alberi. I danni al parco ed alle opere furono ingenti. Nell’aprile del 2019 su iniziativa degli artisti Marco Martalar e Paolo Ceola e della curatrice Alessandra Pagano nasce l’associazione NaturalArte per dare un nuovo sviluppo al progetto. NaturalArte, grazie al lavoro di molti volontari, cura i sentieri e organizza eventi d’arte in un laboratorio a cielo aperto promuovendo l’immersione in Natura con le suggestioni dell’Ecologia Profonda.

Source: agi