Il film è tratto dall’omonimo romanzo della scrittrice francese Amanda Sthers, incautamente passata alla regia
recensione di Franco La Magna
Un melodramma noioso, mal diretto e mal sceneggiato dalla celebrata autrice letteraria, la parigina Amanda Sthers, che incautamente passa dalla pagina scritta alla regia cinematografica portando sullo schermo, con risultati stucchevoli e deludenti, uno dei suoi romanzi. Costruito su continui flash-back, con i quali l’autrice forse intende mostrare la circolarità del tempo, piuttosto che l’inesorabile avanzamento in linea retta, Promises (2021) – infelice coproduzione italo-francese – ruota intorno al tema (già ampiamente affrontato, con altri esiti, in letteratura) dell’amore irrealizzato, che stancamente si trascina e tampina i protagonisti fino alla terza età, sulla quale l’indugio insistito appare sconfortante preludio di un fine vita (soprattutto per Alexsander, il protagonista) fallimentare e insoddisfacente, malinconica rassegnazione di fronte all’incapacità di realizzare quel che forse avrebbe potuto essere una vita sentimentalmente appagante. Privo di carica emotiva, con qualche sequenza che dalle intenzioni drammatiche travasa in una sorta d’involontaria comicità (il protagonista, Pierfrancesco Favino, sotto una fintissima pioggia battente, che a pochi metri smette di cadere, guarda dalla strada l’amante mancata, l’attrice inglese Kelly Reilly, che inizia a suo beneficio un parziale spogliarello, subito interrotto su una castigatissima sottana; o ancora il danaroso nonno, Jean Reno, che non invecchia mai mentre il nipote si trova già in età più che adulta; la ridicola e stramba trovata dei baffi finti, che tutti gli invitati devono portare ad una festa…), Promises appare come un inutile e piatto déyà vu di trite e ritrite tematiche, tutto borghese, pulito e freddo, che rende il sentimento nostalgico e malinconico un soporifero, monotono e vuoto esercizio tecnico di montaggio alternato, oscillante tra infanzia, adolescenza, maturità e vecchiaia. “Il barone rampante”, celebre romanzo di Italo Calvino, più volte mostrato nel corso del racconto, appare come intellettualistico pendant al fallimento affettivo e all’incapacità di Alexsander di riuscire a compiere pienamente la propria esperienza amorosa.