di Carlo Fusaro
Per i riformisti l’inizio della discussione in Senato sulla riforma detta del premierato è stato deludente. Forse, dovevamo aspettarcelo. Le elezioni europee sono fra meno di un mese e il gioco delle parti fra maggioranza e gran parte dell’opposizione, in particolare fra Schlein e Meloni, era da prevedere.
Nondimeno il senso di impotente frustrazione è forte.
E’ dall’inizio di questa vicenda che andiamo ostinatamente segnalando che, con un minimo (un minimo) di buona volontà da parte del governo e della maggioranza da un lato e del Pd dall’altro (non considero il M5S; i centristi sono già della partita, almeno loro), sarebbe possibile non solo dare al paese una decorosa riforma della forma di governo, ma farlo in modo ragionevolmente veloce e con la maggioranza superqualificata dei due terzi, senza referendum.
Sarebbe un passo avanti importante per il paese perché gli si darebbe una riforma solida, fondata su largo consenso, destinata a rinsaldare il patto costituzionale a quasi ottanta anni della Costituente. Resterebbe tanto da fare: basti pensare al bicameralismo e al processo legislativo, al rapporto Stato-Regioni, all’abolizione del Cnel, al superamento delle province, pezzi rilevanti della parte II della Costituzione sull’organizzazione dei poteri. Ma sarebbe un’inizio decisivo.
A spronare maggioranza e opposizione i riformisti sono impegnati da mesi e mesi. Prima la maratona bipartisan organizzata da Libertà Eguale, Magna Carta e Io Cambio, poi la lettera inviata dopo la fine dell’esame in Commissione sia alla maggioranza sia alle opposizioni con proposte concrete e addirittura formulata in emendamenti che affrontano alcuni degli aspetti problematici del progetto com’è al momento.
Ci sono alcuni punti che sono difficilmente contestabili a chiunque abbia un minimo di onestà intellettuale: primo, abbandonando l’ipotesi semipresidenziale per sposare quella neoparlamentare il governo ha fatto una mossa intelligente e di concreta apertura rispetto alle opposizioni visto che queste avevano sostanzialmente fatto proprio quel modello da oltre venticinque anni; secondo, il testo oggi all’esame del Senato lascia non risolte alcune questioni non pretestuose ma assolutamente reali la cui soluzione è imprescindibile per il successo dell’operazione riformatrice. Non occorre essere grandi costituzionalisti per capirlo: basta saper leggere e scrivere. Le segnalo per l’ultima volta.
Con questa premessa. Rispetto ai tentativi più recenti (Berlusconi, Renzi), quello del governo Meloni si scontra con un ostacolo in più: compie la scelta (forse saggia per altri aspetti) di non intervenire sul bicameralismo. Quindi deve fare i conti con due camere che restano pro tempore entrambe titolari del rapporto fiduciario (pur radicalmente ridisegnato). Ne consegue che la questione delicata delle modalità dell’elezione/indicazione del presidente del Consiglio va affrontata e risolta tenendo conto (anche) del bicameralismo paritario.
Pur condividendo l’opinione secondo la quale meno si scrive in costituzione sulla legge elettorale, meglio è, restano da sciogliere questi nodi ineludibili: a) l’individuazione del premier eletto ha da avvenire sulla base dei seggi conquistati o dei voti ottenuti, o un mix (ipotesi c.d. Barbera: seggi in prima battuta, voti al ballottaggio se necessario)? b) se i voti concorrono (sin dal primo turno o anche solo nel ballottaggio) quale ha da essere il regime dei voti espressi da chi vota per posta dall’estero? c) cosa succede se una candidata premier ottiene la maggioranza in una Camera ma non nell’altra? A queste si aggiunge almeno un’ulteriore questione: d) siccome è ragionevole pensare che in una forma o nell’altra la legge elettorale preveda meccanismi premiali impliciti o espliciti, non sarebbe opportuno elevare non di molto il quorum per l’elezione del presidente della Repubblica allargandone però, oltre il Parlamento e i 58 delegati regionali, la base elettorale: a garanzia di tutti?
Hich Rhodus hic salta.
E invece? Invece di sfidare la maggioranza sul terreno concreto dei difetti della riforma, riconoscendo che essa costituisce (come ha detto in una bella intervista Cesare Salvi, non propriamente un pericoloso conservatore con propensioni autoritarie) la versione peggiorata di una propria proposta, il Pd si lancia in battaglie ostruzionistiche, cervellotiche pregiudiziali anche di costituzionalità, evocazioni vagamente minacciose (l’infelice battuta sui “corpi” coi quali opporsi: fisicamente? alla riforma) e mobilitazioni di piazza oltretutto scelleratamente indette per il giorno della festa nazionale (vi immaginate cosa avremmo detto se fossero stati uno o più partiti di destra a inventarsi una cosa del genere?).
Il rischio, va da sé, è, con queste alzate di capo di aprire un’autostrada a una presidente del Consiglio che, scaltra com’è, di tutto ha bisogno tranne che di essere aiutata dall’opposizione a far le vesti della statista ragionevole e aperta a un dialogo che è l’opposizione nei fatti a non volere a nessun costo, facilmente citando politici e studiosi del campo progressista che avevano accettato quando non invocato il modello di forma di governo di cui oggi si discute per sua iniziativa.
Con l’ulteriore e grave rischio che, non messa alla prova sulle questioni concrete irrisolte (vedi sopra) da opposizioni effettivamente pregiudiziali, Meloni e la sua maggioranza non reggano alla tentazione di fare davvero sé, con danno del Paese cui infliggere o l’ennesimo fallimento o una riforma rabberciata.
Il sonno della ragione genera mostri (Francisco Goya, poi Renato Guttuso). Svegliamola.