Politica, un anno dopo le elezioni il ritorno dell’instabilità.


di Giovanni Cominelli

Era parso, dopo la schiacciante vittoria di Giorgia Meloni nelle elezioni del 25 settembre 2022, che la politica italiana avesse finalmente trovato un proprio binario e la certezza della stazione di arrivo e delle fermate intermedie. Governo e opposizione sapevano, ciascuno, dove andare.

Ovviamente, ciascuno in direzione opposta. Il governo Meloni-Salvini prometteva svolte epocali, annunciava riforme istituzionali, volte a consolidare la nostra democrazia infragilita e indecisa a tutto, prometteva mari, monti e ponti.

Si sa: l’illusione del “governo dei mille anni” è una costante di tutti i governi della sedicente Seconda repubblica. Nella Prima repubblica fin dalla cerimonia di giuramento dei Ministri si cominciava a congiurare per un governo successivo. Non affiorava neppure lontanamente il cattivo pensiero della lunga durata. Il primo passo era quello di un rimpasto, dopo qualche mese. Il secondo era quello di far cadere il governo. Del resto il governo era una dépendance delle segreterie di partito: era là che si decideva. Beh, la Lega chiede il rimpasto!

Per quanto riguarda il Governo Meloni, deciso a durare cinque anni – intenzione del tutto lodevole e condivisibile – le sfide erano le stesse del giorno prima e dell’anno prima: l’immigrazione, l’aggressione russa all’Ucraina, l’inflazione, i rapporti con la Commissione europea, con il Consiglio europeo – quello che riunisce  i capi di stato e di governo dei Paesi europei – con il Consiglio dell’UE – quello che riunisce periodicamente i Ministri competenti per discutere le proposte legislative della Commissione europea. Nel giro di un anno questi dossier si sono però di molto appesantiti. Se l’incremento dei flussi migratori non è stato causato dalla Meloni, il sovraccarico politico-simbolico della questione immigrazione nasce dalla filosofia e dall’imperizia di Meloni-Salvini. Se l’immigrazione è questione europea – perché gli immigrati approdano da noi, poi tentano di sciamare velocemente verso l’intera Europa, fino all’estremo Nord – se l’Unione europea funziona su base intergovernativa – ahinoi! – è solo in sede europea, non in sede nazionale, che si può costruire un approccio efficace della questione. Ciò significa battersi duramente e incessantemente per una cooperazione con i maggiori Paesi europei, interessati quanto noi al flusso migratorio, ma poco propensi a bere il calice fino in fondo. Ma il Governo Meloni coltiva un’idea di Europa quale “Europa delle nazioni”, intergovernativa, per la quale ciascun Paese fa i propri interessi immediati, lasciando l’Italia in tutta la sua solitudine.

Meloni e Salvini se ne lamentano in continuazione, ma il disinteresse degli altri Paesi è perfettamente coerente con il sovranismo provinciale del governo. Contemporaneamente chiedono un intervento europeo, senza porsi, tanto per incominciare, alla testa di un progetto di revisione della Legge Fini-Bossi e, soprattutto, della Convenzione di Dublino, firmata nel 1990, entrata in vigore nel 1997 e decisamente ingiallita, dopo trent’anni, dopo una serie di Regolamenti attuativi, di cui il terz’ultimo è stato approvato come “Regolamento UE n. 604/2013”, detto anche “Regolamento di Dublino III”. Revisione, che, in ogni caso, apparirebbe comunque datata, come sottolinea Natale Forlani sul Sussidiario, se non fosse inserita nel quadro di una comune politica europea verso l’Africa. Meloni risponde con un “Piano Mattei”. Solo che non può essere solo italiano. E qui siamo daccapo, all’inizio del circolo vizioso sovranista…

Eppure non dovrebbe essere difficile prendere atto della realtà: che nessun Paese ce la fa da solo di fronte a sfide continentali e che, come ha sottolineato Mattarella, Dublino è ormai preistoria.

Ma è qui che incontriamo o, peggio, ci frana addosso la “la filosofia politica” dei partiti in Italia, quale è invalsa nella Seconda repubblica: la politica è l’attività per vincere le prossime elezioni e andare al governo. E il governare? È l’attività per vincere le prossime elezioni.

La politica italiana, tutta intera, destra e sinistra, è prigioniera di questo circolo vizioso. La sinistra-Schlein teorizza tranquillamente che per dire qualcosa di sensato su qualsiasi tema di governo – per esempio, se dare o no armi all’Ucraina – bisogna prima andare al governo. E fino ad allora? Si masticano petardi. Pura regressione da sinistra-che-fu-di-governo al vetero-massimalismo degli anni ’20 del Novecento. Così, mentre la Meloni si trova a dover fare un doloroso apprendimento dai propri errori da opposizione, la sinistra-Schlein regredisce vistosamente verso l’infanzia del Movimento operaio. Sunt lacrimae rerum!

Se si fa politica non per governare, ma per prendere più voti della volta precedente o per riguadagnare quelli perduti, se la politica non è più governo del Paese, ma demagogia, propaganda, ricerca ossessiva dei voti, allora ne conseguono rivendicazioni demagogiche, quando ci si trova all’opposizione, e provvedimenti clientelari e pro-corporativi quando si sta al governo. Dalla tassazione sugli extra-profitti delle banche, che le banche provvedono graziosamente a trasferire sui risparmiatori, al cedimento agli interessi dei bagnini o dei taxisti, dagli annunci “fermeremo i migranti sulla battigia” ai ritardi nell’introduzione della concorrenza come legge fondamentale dei mercati, alle ipotesi ventilate di condoni, il governare è ridotto ad accumulare voti per la prossima (?) vittoria, in un infinito e sterile movimento su se stessi.

Occorre constatare che Giorgia Meloni sta oscillando nevroticamente sul punto. Quando le accade di piegarsi al principio di realtà, cui la collocazione di governo ti costringe, quando prende atto che l’ordine del giorno alla politica lo fornisce il mondo “là fuori”, allora qualcosa combina.

Da questa incapacità della politica italiana di fare i conti con l’Italia reale e con il contesto europeo, di dire la verità agli Italiani su di loro… dal ritorno di instabilità e di impotenza della politica democratica, possono derivare due conseguenze. La prima è l’aumento ulteriore dell’astensionismo, il cui nucleo etico è presto svelato: se la politica non funziona, mi arrangio da solo, onestamente o no, rispettando l’etica pubblica o anche no, pagando le tasse o anche no. L’astensionismo non è solo un modo di “votare”, è anche e soprattutto un modo di guardare la società e di starci dentro. Raramente positivo socialmente. La seconda: il rilancio del populismo anti-politico che si capovolge in politica attraverso il voto di protesta e che punta all’ossimoro di “un governo di protesta”: cioè di un governo che dilapida il denaro pubblico e manda a picco il Paese per accontentare ogni protesta. Ad ogni categoria il suo Superbonus del 110%. Conte continua ad essere il leader più votato, nei sondaggi si intende.

Quanto alle conseguenze per il Paese, l’Italia continuerà ad essere una “navicula” sballottata dai venti del mondo, senza mai trovarne uno favorevole, lamentandosi di continuo di complotti, attacchi, ostilità. Ahinoi, come ammoniva il saggio Seneca, “ignoranti quem portum petat nullus suus ventus est”. Cioè: nessun vento è mio, se non so verso quale porto dirigermi.