di Antonello Longo
Dalla mia parete pende un lavoro giapponese, di legno
maschera di un cattivo demone, laccata d’oro.
Con senso partecipe vedo
le vene gonfie della fronte mostrare
quanto sia faticoso esser cattivi.
- Brecht, “La maschera del cattivo”, da “Poesie e Canzoni”, Torino, Einaudi, 1959.
Vorrei, da semplice lettore, parlare del mio ricordo di Bertolt Brecht, drammaturgo, regista, saggista, poeta, che nacque il 10 febbraio del 1898 ad Augusta, in Baviera.
Chi non conosce l’opera di Brecht, chi – anche senza conoscerla – non ne ricorda almeno un titolo? Eppure ho la sensazione che oggi trovi luogo l’idea di un Brecht autore “datato”, espressione di un ciclo storico ormai concluso. Io non lo credo. L’umanità dei suoi personaggi, che seguono solo il proprio istinto di sopravvivenza e di sopraffazione, la sferza della sua satira, con quei malviventi che si comportano esattamente come la più crassa borghesia, la graffiante ironia che mette a nudo i problemi della società capitalistica: questo è Brecht, ed io lo sento vivo, qui ed ora.
Nessun autore si può comprendere in pieno senza aderire al suo vissuto, al suo tempo. Brecht appartenne ad una generazione segnata dall’immane massacro della grande guerra ed egli, giovanissimo, fu attratto dalla sfera della protesta e della denuncia, in un’epoca di miseria e di disordine quale fu la Germania di Weimar, in preda ai conflitti e alle contraddizioni di una nazione umiliata, il cui popolo cercava di riscattarsi, moralmente e materialmente, dalla rovinosa sconfitta del suo stesso imperialismo.
Generale, il tuo carro armato è una macchina potente
spiana un bosco e sfracella cento uomini.
Ma ha un difetto:
ha bisogno di un carrista.
Generale, il tuo bombardiere è potente.
Vola più rapido d’una tempesta e porta più di un elefante.
Ma ha un difetto:
ha bisogno di un meccanico.
Generale, l’uomo fa di tutto.
Può volare e può uccidere.
Ma ha un difetto:
può pensare.
Furono l’adesione al marxismo, lo straordinario connubio artistico con il musicista Kurt Weill, il fertile incontro con Erwin Piscator, a segnare la sua esperienza giovanile di uomo e di letterato. La follia hitleriana condizionò la sua maturità con l’esilio europeo, sempre in fuga, sempre in prima linea contro il nazismo. Poi il soggiorno negli USA e l’incontro-scontro col maccartismo; il nuovo dopoguerra, il ritorno in Europa. Berlino, la DDR, l’infarto che lo stronca troppo presto, a 58 anni.
Un’arte, un linguaggio, oltre l’espressionismo: l’uomo non più dato fisso ma processo; non è il pensiero che determina l’esistenza ma l’esistenza sociale determina il pensiero. La poesia, poi. Quella c’è o non c’è e, se c’è, è per tutti gli uomini, per tutti i tempi.
Cosa posso dire io, non letterato, di un autore-cardine della cultura europea del novecento? Niente che stia al di fuori di un rapporto personale, poiché sono cresciuto con l’opera di Brecht sul comodino, perché la sua lettura ha occupato tante delle mie notti. E le ha turbate.
Sí, ho ballato con “Le vedove di Osseg tutte vestite a lutto”: “che cosa farete per i nostri figlioli, cara gente?”. I ritagli di giornale del “Libro di devozioni domestiche” ancora si ripresentano nella mente, all’improvviso: l’infanticida, “Maria Farrar, nata in aprile, senza segni / particolari, minorenne, rachitica, orfana”; Apfelbock, il giglio dei campi, “In mite luce Jakob Apfelbock / ammazzò il padre e la madre suoi, / … / e restò nella casa, solo lui.”
Non conoscendo la lingua dell’Autore, devo scontare l’effetto mediatico della traduzione. In tedesco ogni parola sembra una minaccia! “Der Pfaumenbaum”, che suono terribile! Ma significa “Il Susino”, l’albero delle prugne. (Tutti i versi qui citati sono tradotti da Franco Fortini, poeta egli stesso e non di poco conto).
Nel cortile c’è un susino.
Quant’è piccolo, non crederesti.
Gli hanno messo intorno una grata
perché la gente non lo pesti.
Se potesse, crescerebbe:
diventar grande gli piacerebbe.
Ma non servono parole:
quel che gli manca è il sole.
Che è un susino, appena lo credi
perché susine non ne fa.
Eppure è un susino e lo vedi
dalla foglia che ha.
Il canto di un uomo in fuga dalla Germania del 1934. “Der pfaumenbaum” è l’anelito di libertà che, in ogni condizione, vive dentro l’essere umano.
Anche per me, soprattutto per me, sono state motivo di scandalo e di indignazione (non la fede comunista ma) la difesa delle purghe staliniane e l’approvazione della repressione della rivolta operaia di Berlino nel 1953, cioè la provocazione dell’ortodossia sovietica scagliata da Brecht contro la speculazione su questi fatti imbastita, a suo parere, dai borghesi benpensanti. Günter Grass, meglio di chiunque altro, ha saputo cogliere questa contraddizione di Brecht facendone personaggio del dramma “I plebei provano la rivolta” (in Gunter Grass, “Tutto il teatro”, Milano, Feltrinelli, 1968).
Ma Brecht, in realtà, non ebbe mai, non poteva avere, rapporti comodi con il potere, nemmeno nella DDR di Ulbricht. La chiave per capire l’effetto dei contrasti dolorosi del suo tempo sull’uomo- Brecht, si trova nei suoi stessi versi.
Spogliarsi di violenza,
render bene per male,
non soddisfare i desideri, anzi
dimenticarli, dicono, è saggezza.
Tutto questo io non posso:
davvero, vivo in tempi bui!
…
Voi che sarete emersi dai gorghi
dove fummo travolti
pensate
quando parlate delle nostre debolezze
anche ai tempi bui
cui voi siete scampati.
…
Ma voi, quando sarà venuta l’ora
che all’uomo un aiuto sia l’uomo,
pensate a noi
con indulgenza.
(1938)
“A coloro che verranno”, da “Poesie e Canzoni”, Torino, Einaudi, 1959.