Peter Sloterdijk


Alcuni filosofi sono influenti per via delle loro teorie, altri perché li ascolteresti per ore mentre parlano più o meno di qualunque cosa. Sloterdijk fa parte di questa seconda categoria, che chiamerei dei “grandi affabulatori”. Dategli un filosofo qualunque, da Diogene a Heidegger, e ve ne parlerà per centinaia, migliaia di pagine, aprendo prospettive su prospettive. Ma gli basta anche un’idea, un concetto, una parola, come “cinismo”, “esercizio”, “ascesi”, “sfere”… bum! Cinquecento pagine. Per via di una prosa elegante, chiara e suggestiva, che si accompagna a una profonda cultura, leggere Sloterdijk è un grande piacere – anche se è altrettanto facile smettere di farlo, essendo a tal punto prolisso che chi preferisce i filosofi che vanno dritto al punto dopo qualche centinaio di pagine potrebbe passare ad altro. Se la sintesi è sempre una violenza, dunque, in questo caso si tratterebbe di omicidio, perché il pensiero di Sloterdijk vive nelle parentesi. Faccio un esempio con uno dei testi che lo ha portato alla fama, La critica della ragion cinica. La tesi è: crollati i valori assoluti, il cinismo non è più rivoluzionario come nell’antichità (Diogene), ma una posa trasversale, asservita ai valori della società predominante. Bisogna dunque riportarlo all’antica versione. Tutto qui? No, ovviamente, perché in questo come negli altri libri di Sloterdijk il piatto principale è il contorno. A lasciare il segno infatti non sono delle tesi chiare e distinte, ma i lunghi percorsi multidisciplinari con cui reinterpreta e innova dei fondamentali concetti filosofici.

Ricondurre il secolo passato all’archivio delle sue efferatezze o alla preminenza di un principio politico o economico significa abdicare alle finalità conoscitive a cui si ambiva, e cadere preda di quel riduzionismo che Sloterdijk giudica tra i più virulenti contagi novecenteschi, tutt’altro che debellati.