Peter Brandt: "Il crollo del Muro non doveva portare alla fine dell'Urss"


AGI – “Il crollo del Muro di Berlino non avrebbe dovuto portare alla fine dell’Urss”. A trent’anni precisi da quel 25 dicembre in cui la bandiera sovietica fu ammainata dal Cremlino (Mikhail Gorbaciov si era dimesso mezz’ora prima), lo storico tedesco Peter Brandt – figlio del cancelliere dell’Ostpolitik, Willy Brandt e grande indagatore delle relazioni tra Occidente e Russia – in quest’intervista esclusiva all’AGI dà una lettura controcorrente dei rivolgimenti che portarono al collasso del gigante sovietico.

Professor Brandt, sono passati trent’anni: il muro di Berlino era già caduto, eppure fino a poco tempo prima la fine dell’Urss sembrava qualcosa di impensabile. Visto dall’oggi, come è stato possibile?
“La dissoluzione dell’Unione Sovietica fu l’ultimo atto drammatico della dissoluzione del socialismo reale in Europa. Questo sistema aveva dimostrato un certo successo nell’industrializzazione, ma che era risultato fallimentare in quanto al passaggio dalla crescita estensiva a quella intensiva. Motivo per cui il divario negli standard di vita nel corso dei decenni divenne sempre più grande, e la mancanza delle libertà individuali e collettive veniva percepita con forza maggiore, vieppiù alla luce della distensione degli anni sessanta e delle promesse legate all’Accordo di Helsinki del 1975”

La via delle riforme non sarebbe bastata?
“Tanto per cominciare, negli anni ottanta era cresciuta la dipendenza economica di diversi Paesi dell’Est nei confronti dell’Occidente, mentre l’Urss rimaneva impigliata nell’insostenibile guerra in Afghanistan e non poteva tenere il passo con gli Usa nella corsa agli armamenti. Insomma, il sistema si sarebbe potuto tenere in piedi con un’oppressione ancora più dura solo forse per uno o due decenni. E alla fine la vera e propria dissoluzione fu il risultato del fallimento delle riforme gorbacioviane e del tentato golpe diretto proprio contro di esse. Un percorso favorito dalle rivalità interne alla leadership sovietica e tra alcune repubbliche, a cominciare dalla stessa Russia”.

Eppure la perestrojka e la glasnost avevano portato con sè tante speranze e attese, dopo la fine della guerra fredda…
“Gorbaciov aveva capito quali fossero i fondamenti della crisi di sistema, ma non aveva una bussola chiara. E probabilmente era comunque troppo tardi: era rimasta inascoltata la grande chance di rispondere con delle riforme di fondo alla ‘perestrojka del 1968’, ovvero del socialismo cecoslovacco ‘dal volto umano'”.

Fu una figura tragica Gorbaciov?
“Senza dubbio: perchè alla fine non si sono potuti realizzare nè un socialismo rinnovato, nè un superamento dei conflitti tra le grandi potenze, nè la casa comune Europa. Per di più, Gorbaciov oggi viene ancora visto come il distruttore dell’impero. I suoi tentativi di cambiare le cose – tentativi che certamente hanno avuto anche dei risultati – hanno fatto emergere ancora più chiaramente le mancanze del vecchio sistema. Come suo merito storico, invece, rimarrà il fatto che il disfacimento del vecchio ordine sia avvenuto senza un bagno di sangue”.

Il 9 novembre 1989 era caduto il Muro di Berlino. In che senso contribuì alla fine dell’Unione sovietica?
“Ci si ricorda sempre la frase che Gorbaciov aveva pronunciato solo poche settimane prima davanti ai vertici della Ddr: “Chi arriva in ritardo sarà punito dalla vita”. “Fondamentalmente la caduta del Muro ha contribuito in modo massiccio al crollo della Ddr e del Patto di Varsavia. Ma non si deve dimenticare che sin dall’agosto 1989 alla guida della Polonia c’era già un presidente non comunista e che anche in Ungheria erano state poste le basi di un sistema multipartitico. Gorbaciov aveva anche abolito la dottrina della sovranità limitata dei Paesi del blocco orientale. Lo ripeto: il crollo del Muro non avrebbe dovuto portare alla dissoluzione dell’Unione sovietica”.

A 30 anni di distanza, le relazioni tra l’Occidente e la Russia sono ancora molto complicate. Cosa abbiamo sbagliato?
“L’Occidente, ossia gli Stati Uniti, non ha perseguito coerentemente la strada del superamento delle strutture del blocco attraverso un sostanziale disarmo e la creazione di un sistema di sicurezza paneuropeo, come indicato nella Carta di Parigi del novembre 1990, ed invece ha dato priorità al rafforzamento della Nato. Il desiderio dei Paesi dell’Europa centro-orientale e sud-orientale di unirsi è comprensibile a causa delle loro esperienze storiche, ma l’allargamento a est sarebbe altamente problematico per qualsiasi governo russo concepibile”.

Cosa ne dice della crisi ucraina, che sembra aver risvegliato antichi spettri?
“Certo la Russia non facilita il compito a coloro che nell’Occidente si impegnano per la distensione, anche se le sue azioni ai confini occidentali sono comprensibili: il tintinnar di sciabole non rappresenta la preparazione di un grande attacco (spero di non sbagliarmi), ma è un modo per far pressione affinchè la Nato rinunci ad ammettere l’Ucraina. Naturalmente, questo potrebbe non accadere nel modo in cui lo immagina Mosca. In generale, la de-escalation è necessaria da parte di tutt’e due le parti in conflitto. In più va detto che nel suo complesso la crisi ucraina non è unilateralmente causata da azioni russe o filorusse, ma piuttosto da una divisione culturale e socio-politica interna ucraina, nonchè da un meccanismo di escalation reciproca in parte determinato da percezioni errate di ciascuna parte”.

Anche i rapporti tra la Germania e la Russia sono molto tesi: prima gli attacchi hacker al Bundestag, poi l’omicidio del Tiergarten che sarebbe stato orchestrato dai servizi russi, ma anche il braccio di ferro intorno ad Aleksey Navalny. Tuttavia il nuovo cancelliere Olaf Scholz insiste sulla necessità di mantenere aperto il dialogo. Lei come la vede?
“Supponiamo che il delitto del Kleiner Tiergarten sia stato, come stabilito da un tribunale, un omicidio su commissione statale: ma anche gli Usa uccidono con i droni migliaia di presunti terroristi oltre che un notevole numero di civili. L’una e l’altra cosa sono atti spregevoli, e naturalmente lo Stato tedesco deve difendersi dal diventare il luogo in cui vengono realizzati tali azioni”.

“Ma in generale consiglierei di separare il livello dei rapporti tra due Stati mossi da interessi, preferibilmente improntati alla cooperazione (di cui abbiamo bisogno anche per affrontare crisi dell’umanità come quella climatica) e il livello della discussione pubblica completamente libera, compreso il sostegno simbolico e diretto a movimenti di emancipazione attraverso organizzazioni di solidarietà, associazioni e partiti. Un sostegno, aggiungo, che secondo me non dovrebbe concentrarsi solo sui Paesi dell’est europeo e della Cina”.

Source: agi