Perché il Pnrr non basta


Invece di impostare un piano concordato di aumento della produttività collegata ad un corrispondente aumento dei salari, provvedendo così all’aumento della domanda di beni ed innescando una politica industriale di innovazione e sviluppo basata sulla programmazione, ancora una volta, ci si affida alle sovvenzioni e agli sgravi fiscali

di Renato Costanzo Gatti

Riporto in modo semplificato l’articolo di Leonello Tronti “investimenti, profitti e ripresa: il problema italiano. Un’analisi di lungo periodo”, pubblicato l’8 gennaio 2021 dalla rivista online “Economia e politica”.

Un articolo di Leonello Tronti

Il nostro paese da 19 anni cresce un punto di meno della media dei paesi europei; accumulando così, a prezzi concatenati, un ritardo di trenta punti di PIL (figura 1)

Figura 1

La nostra crescita ridotta non è certo aiutata dalle norme europee che, non tenendo distinte le uscite per spese correnti da quelle per investimenti, non distinguendo cioè le spese improduttive da quelle produttive, ignorando cioè la golden rule di Delors, ci costringe ad un avanzo primario, che da anni conseguiamo, soprattutto a scapito degli investimenti.

Se infatti esaminiamo gli investimenti del nostro paese rispetto a quelli di altri paesi europei, osserviamo che in Italia, “nella media dei 24 anni trascorsi dal 1995 al 2019, essi sono cresciuti dello 0,5% l’anno, contro l’1,7% dell’insieme dell’Eurozona – ovvero con un ritmo pari a meno di un terzo.

Come risultato di lungo periodo, fatto pari a 100 il valore degli investimenti nel 1995, nel 2019 questo era diventato 112 per l’Italia e 150 per l’Eurozona. In altri termini, rispetto al 1995, nel 2019 l’Italia ha maturato, nei confronti dell’Eurozona, un ritardo negli investimenti fissi lordi di 38 punti percentuali”.

Nello stesso periodo è interessante vedere quale percentuale del PIL viene investito nei paesi di cui stiamo elaborando i dati.

Nel lungo periodo in esame (1995-2019), l’Italia ha reinvestito in media, in beni non finanziari, soltanto il 19,5% del Pil: una quota superiore unicamente a quelle di Grecia e Regno Unito, la prima preda di una profonda crisi economica e il secondo caratterizzato da una forte preferenza per gli investimenti finanziari.(…) la quota italiana è stata, in media, inferiore di 1,9 punti percentuali di Pil a quella dell’intera Eurozona, di 1,4 punti a quella tedesca, di 2,2 punti a quella francese, di 3,6 punti a quella spagnola”.

Esaminando inoltre la redditività, misurabile in questo contesto come effetto sul PIL, riscontriamo che “gli investimenti italiani hanno avuto in media un effetto del 6,6% sull’incremento del Pil a distanza di 2/3 anni, mentre il valore della ricaduta è stato del 7,4% per l’intera Eurozona e del 7,2% per la Germania”.

Dopo aver notato che la scarsa propensione ad investire riguarda sia il settore pubblico che quello privato, l’Autore riscontra le seguenti cause.

Per gli investimenti pubblici: “come abbiamo notato, l’adesione all’euro ha comportato per l’Italia l’obbligo di sottostare ai vincoli stringenti del Trattato di Maastricht (1992), poi del Patto di stabilità e crescita (1997) e quindi del Fiscal Compact (2012), concepiti più per assicurare stabilità alla moneta comune che crescita e convergenza ai paesi aderenti ad un’area valutaria subottimale sin dalla costituzione”. Ma a questo elemento “si è sommato l’affermarsi di un diffuso quanto infondato consenso politico generale di tipo privatistico e mercatista, secondo il quale il mercato lasciato a se stesso – e anzi continuamente favorito dal decisore politico – avrebbe più che supplito al ritiro della mano pubblica dall’economia, e lo avrebbe fatto in modo efficiente e libero dai condizionamenti, dalle clientele e dagli sprechi della politica. (…) I risultati smentiscono impietosamente questo diffuso convincimento. Analoga valutazione andrebbe fatta sull’efficacia di continui, consistenti, eroici avanzi primari, quando l’utilizzo di quelle risorse pubbliche per sostenere gli investimenti ne avrebbe invece ridotto nel tempo la necessità”.

Per quanto riguarda gli investimenti privati occorre osservare che le imprese, come vedremo più avanti, “hanno comunque accumulato profitti e utili, avvalendosi anzitutto della redistribuzione primaria del valore aggiunto ottenuta con il blocco dei salari reali connesso alla mancata diffusione della contrattazione decentrata e alla flessibilizzazione dei rapporti di lavoro. Poi delle varie agevolazioni e decontribuzioni, riforme pensionistiche, ripetute riduzioni della progressività delle imposte dirette, condoni fiscali e mancanza di progressività delle imposte sui guadagni finanziari. Oltre a tutto questo, le imprese hanno poi ottenuto crediti bancari a interessi particolarmente vantaggiosi rispetto all’epoca della lira, così che il complesso di questi benefici ha consentito loro di accumulare profitti in un’economia stagnante e di ridurre significativamente i debiti sotto il 40% delle passività di bilancio.

Nonostante (ma, paradossalmente, forse proprio a causa di) queste condizioni straordinariamente favorevoli, azionisti e amministratori hanno investito nelle loro imprese in misura insufficiente e decrescente, non hanno innovato e hanno lasciato ristagnare la produttività come nessun altro paese europeo ha fatto.”

Ora è noto che gli investimenti, che sono processi lunghi, complessi e costosi, sono attivati dalle aspettative sull’evoluzione futura dell’economia che “dal 2008 in poi hanno certamente deluso le aspettative delle imprese operanti sul mercato interno, scoraggiando gli investimenti e creando così un circolo vizioso, quasi una nefasta profezia autoavverantesi, in cui bassi salari e bassi investimenti hanno depresso la crescita mentre, a loro volta, le consolidate aspettative di una crescita modesta hanno ulteriormente scoraggiato gli investimenti (anche a fronte di profitti cospicui), alimentando una spirale depressiva di lungo periodo che solo un intervento esogeno può invertire”.

Per approfondire questo caso lampante di fallimento del mercato, vediamo come sono andati i profitti delle imprese italiane nell’ultimo quarto di secolo. La Figura 2 riporta, per l’insieme del settore privato, i valori annuali del tasso di profitto rispetto al valore aggiunto dello stesso anno, espresso come incidenza percentuale del margine operativo lordo (MOL).

Figura 2

Nonostante le fortissime perturbazioni che attraversano il periodo esaminato, il saggio di profitto sul valore aggiunto si dimostra notevolmente stabile e resiliente. L’oscillazione nei confronti del valore medio dell’intero periodo (42,5% del valore aggiunto, linea tratteggiata) è relativamente contenuta: se per 11 dei 25 anni esaminati il valore si colloca sotto la media di lungo periodo (mediamente di 1,3 punti percentuali), per 14 anni ne è invece al di sopra (mediamente di 0,9 punti)”.

L’ultima questione che questo contributo affronta è, dunque, quella della propensione delle imprese a reinvestire in Italia i profitti realizzati. Infatti, l’indice dei profitti non è certo l’unica variabile da cui dipenda la crescita del Paese: fare profitti è condizione necessaria ma evidentemente non sufficiente. Perché l’economia cresca i profitti vanno reinvestiti.

Esaminiamo (figura 3) la propensione al reinvestimento dei profitti nel periodo in esame.

La fase della ‘doppia crisi’ (2007/2013) ha inciso pesantemente sulla propensione al reinvestimento, facendola cadere dal 61,7% del 2007 al 49,4% del 2014, con una perdita di ben 12,3 punti percentuali. In altri termini, dopo la ‘doppia crisi’, mentre l’incidenza dei profitti sul valore aggiunto si ridimensiona di un solo punto percentuale (dal 42,9% del 2007 al 41,9% del 2014) quella degli investimenti sul margine operativo crolla di più di dodici volte”.

Questi dati confermano il rilievo della caduta della propensione delle imprese a reinvestire nell’economia reale italiana i profitti realizzati, nonostante il significativo aumento della redditività degli investimenti che in particolare, nell’ultimo quinquennio, raggiungono e superano il precedente massimo di redditività del 2000. Apparentemente, la caduta della propensione a investire, deprimendo gli investimenti, deprime la crescita e con essa deprimerebbe anche le aspettative di profitto degli stessi investimenti, seppure in una situazione di alta redditività degli investimenti recenti.”

Vediamo di trarre qualche conclusione.

Ci troviamo in un circolo vizioso per il quale non ci sono investimenti perché non ci sono aspettative di domanda crescente e non c’è aspettativa di domanda perché non ci sono investimenti, non ci sono innovazioni, non si sposta la produzione da settori a bassa produttività a nuovi settori più redditizi, non si affronta il tema del nanismo aziendale e soprattutto perché il capitale non reinveste i profitti.

In questa situazione il PNRR invece di impostare un piano concordato di aumento della produttività collegata ad un corrispondente aumento dei salari, quella che Sylos Labini chiamava “frusta salariale”, riferendosi all’effetto Ricardo, provvedendo quindi all’aumento della domanda di beni ed innescando una politica industriale di innovazione e sviluppo basata sulla programmazione, ancora una volta, dicevamo, ci si affida alle sovvenzioni e agli sgravi fiscali. La più gran parte del PNRR dedicata all’innovazione rimane infatti legata ai super iper ammortamenti 4.0 inventati da Calenda.

In sintesi, si regalano soldi ad un capitale che si sta dimostrando incapace di uscire dal loop nel quale la nostra economia si è infilata, che preferisce defraudare le imprese produttive dei profitti per reinvestirli nella finanza, specie all’estero (vedi l’andamento del target 2), che non crede all’innovazione e che, secondo il nostro PNRR, dovrebbe essere incaricato di scegliere lui come reinvestire l’elemosina che tutta la comunità gli elargisce.

È qui, in questa scelta liberista fatta dal Conte2 e da Draghi, che si evidenzia tutta l’insufficienza del nostro piano di ripresa e resilienza, laddove invece un intervento dello Stato nell’individuare dove i fondi europei vanno investiti, deducendone i nuovi fabbisogni (ad esempio i superconduttori) e programmando investimenti in quei settori e nel loro indotto, specie se generatori di importazioni, e programmando investimenti nel capitale umano, dalla scuola primaria alla ricerca pura e quindi alla traslazione di tecnologie, si abbandona ogni scelta ad un capitalismo miope, senza coraggio e sempre alla questua di meno fisco.

I capitalisti italiani, ammonisce l’ex direttore generale della Banca d’Italia Pierluigi Ciocca, sono chiamati a far leva, più che sui trasferimenti statali, sui loro patrimoni, che sono cospicui e per superare le attuali difficoltà andrebbero investiti nell’azienda”. Lo Stato dovrebbe quantomeno “evitare di contribuire ulteriormente al loro sterile arricchimento con trasferimenti a fondo perduto di risorse da ultimo prelevate dal reddito dei contribuenti, soprattutto lavoratori e pensionati”, oppure con risorse prese a prestito dall’Unione Europea o dai mercati, che comunque dovranno essere restituite e con gli interessi.