Perché all’italia e all’europa serve una nuova politica industriale


Maurizio Maresca

La sfida che attende il nostro paese da almeno vent’anni non è quella del Pnrr (la fiera delle ipocrisie!) ma quella della competitività: più che mai decisiva se si guarda alla gravissima congiuntura del Gatt e del Wto (anche per l’azione di Stati Uniti, Cina e Russia). Dopo i tentativi di Francia e Germania del 2019 di promuovere una politica industriale comune europea ex art. 173, Tfue perché si superasse la fisiologica concorrenza fra gli Stati membri, e l’unione si ponesse come uno dei tre centri della comunità internazionale, l’europa è oggi ininfluente. I “cinguettii” delle istituzioni europee (come le deroghe in materia di aiuti di stato) sono davvero “acqua tiepidissima” rispetto all’inflation Reduction Act (Ira) americano e alle misure cinesi; comunque non interessano l’italia (il cui debito non le consente di sostenere una politica industriale efficace). Il che non vuole dire che l’italia non debba coltivare una sua politica economica inevitabilmente con altri paesi per rendere competitive le sue imprese.
Gli investimenti
Nelle infrastrutture. Uno studio di Paolo Costa ed Ercole Incalza, di recente presentato da Astrid, ci dice che, malgrado la tendenza al reshoring, i traffici nazionali e mediterranei saranno inevitabilmente puntati sul Far east e sull’africa. Occorre quindi creare infrastrutture importanti ed efficienti per sostenere i corridoi europei: non 20/30 porti mediterranei costretti dentro alle città (e quindi inefficienti), ma 2/3 grandi sistemi dock-off dock collegati ai valichi alpini in grado di sviluppare quantitativi di traffico di scala diversa dall’attuale. Un’esigenza, condivisa da politica e industria, che ora la Presidenza del Consiglio insieme con la Commissione europea affrontano con una logica competitiva (e non distributiva).
Nell’industria. La sensazione è in primo luogo che si stiano disperdendo risorse con operazioni superate (perché non si è intervenuti tempestivamente). Si pensi all’acciaio: un’attività che consuma un’enormità di risorse, crea problemi all’ambiente e alla salute e occupa spazi preziosi a Taranto, Genova e Novi Ligure. L’italia, in secondo luogo, evidenzia un tessuto industriale piccolo-medio fiorente e innovativo: ma sottocapitalizzato e quindi a rischio. Forse Cdp, i grandi istituti (che possiedono Npl rilevanti) e le stesse Fondazioni principali potrebbero costituire un’agenzia per sostenere, con fondi internazionali, non solo le grandi imprese pubbliche, ma anche l’industria italiana più tipica (senza limitare il suo dinamismo e gli assetti proprietari).
Valorizzare i champions italiani
E’ necessario, con una prospettiva di medio lungo periodo, rendere più competitiva l’industria nazionale favorendo l’integrazione anche su base internazionale. La logica non deve essere quella delle partecipazioni statali: piuttosto una programmazione senza che il paese assuma una responsabilità di gestione e una partecipazione nel capitale. Alcuni esempi. Nel comparto dello shipping alcune imprese italiane, svizzere, francesi edanesi possono costituire, nella parte merci, un’offerta invincibile se intorno a loro, nel rispetto del principio di non discriminazione, si costruiscono servizi e infrastrutture adeguate (in questo comparto l’america non è presente mentre lo è la Cina – con cui dovranno definirsi relazioni). Anche nel campo delle tecnologie Italia e Francia hanno molte opportunità di mettere insieme un’offerta competitiva se coordinata (telecomunicazioni, dati, energia, aerospazio ecc.) magari con il sostegno dei politecnici italiani, francesi e svizzeri. Il fallimento del progetto Fincantieri Stx, anche causato da una lettura molto conservatrice del diritto europeo, impone di rivalutare il futuro di questa grande impresa nazionale. E, da ultimo, le costruzioni: le imprese francesi, italiane e spagnole hanno le dimensioni e le capacità, se coordinate, per svolgere un ruolo centrale in concorrenza con i colossi stranieri.
Il diritto del mercato
Ovviamente un progetto di politica economica ambizioso impone una lettura corretta del diritto europeo della concorrenza. Come ha affermato la Corte costituzionale, il diritto della concorrenza rivela il suo valore anche oltre il mercato, concorrendo alla politica economica in modo da favorire, non solo il level playing of the field, ma anche la competitività dello stato. Questo non significa affatto un “liberi tutti” rispetto alle regole di governo dell’economia: al contrario, lo stato, tanto più nella ricordata crisi del diritto internazionale dell’economia, è chiamato a presidiare la società con regole di ingaggio (talora di difesa e talora di promozione della national jurisdiction) e specialmente con istituzioni di assoluta qualità (professionalità, trasparenza e indipendenza). Sorprende sempre che le famose riforme previste nel Pnrr si limitino (sic!) alle concessioni balneari: altre misure sono importanti per assicurare la soppressione delle barriere di accesso al mercato, la piena concorrenza e una politica industriale.

Fonte: Il Foglio