Perché a Riad fa comodo la scomparsa di Khashoggi


Le modalità sono da “Pulp Fiction”, il plot da “L’uomo che sapeva troppo”. Stando alle ultime rivelazioni, pubblicate dal New York Times, il corpo di Jamal Khassogi sarebbe stato fatto a pezzi con una sega all’interno del consolato saudita di Istanbul, dove il giornalista dissidente sarebbe stato attirato con un tranello.

Contro il Principe delle riforme

Difficile immaginare che l’omicidio – ancora da appurare ufficialmente, ma i giorni passano e di lui non si sa più nulla dal 2 ottobre – non abbia mandanti in alto, nel regno della Casa di Saud. Non tanto perché il governo turco ha fatto conoscere una lista di 15 cittadini sauditi arrestati a ridosso dei fatti, quanto semmai per via della personalità dello scomparso: troppo in vista, troppo parte egli stesso delle elite di potere di Riad.

Il fatto è che Jamal Khashoggi, 60 anni, una delicata posizione di opinion maker grazie ai suoi commenti sulla Washington Post, era da tempo una voce fuori dal coro alla corte dell’uomo forte saudita, il principe ereditario Mohamed bin Salman. Considerato finora un esponente del movimento riformista di una delle monarchie più rigide del mondo musulmano.

In realtà per Salman, conosciuto in Occidente per aver preso decisioni in vista della liberalizzazione della società saudita come l’abolizione del divieto alle donne di guidare l’automobile, sta assistendo da alcuni mesi al declino della sua nuova politica di potenza nella Penisola Arabica, e anche oltre.

Le alterne fortune della Casa di Saud

La guerra nello Yemen, decisa per ribadire l’influenza nella regione del Mar Rosso e del Corno d’Africa, è in stallo mentre avrebbe dovuto essere, nei piani sauditi, rapida ed efficace. Il blocco deciso lo scorso anno contro il Qatar per ristabilire la propria leadership nel mondo arabo, è stato altrettanto fallimentare. Le stesse aperture ottenute dagli Stati Uniti dopo la visita di Donald Trump non si sono rivelate essere fruttuose come sperato.

Soprattutto, non è detto che le timide aperture avviate all’interno della società saudita abbiano portato alla creazione di un maggiore consenso. Al contrario: si direbbe che l’aria di relativa libertà che si respira a Riad abbia scatenato le forze finora represse del dissenso.

Tra queste anche le continue punture di spillo che Khashoggi faceva arrivare tramite il suo blog in arabo e le colonne di uno dei più importanti giornali americani. Secondo la sua stessa definizione erano “nasiha”, esortazioni; secondo il governo critiche malevole. Soprattutto quando si trattava di Yemen e Qatar.

Cresce la repressione

In effetti il regime saudita, dopo le prime aperture dello scorso anno, pare aver scelto il ritorno alla tradizionale repressione del dissenso interno. Sono decine gli oppositori che si trovano nelle carceri wahabite, spesso con il rischio di finire davanti al boia. A marzo un’attivista per i diritti della donna, Loujian al-Hathioul, è stata sequestrata in modo illegale mentre si trovava ad Abu Dhabi per essere riportata, illegalmente, in patria. Un precedente che aveva fatto pensare, sulle prime, che anche a Khashoggi sarebbe stato riservato lo stesso trattamento.

Visto con la prospettiva di oggi, anche la retata dello scorso novembre che ha portato in cella un centinaio di membri della famiglia reale e di esponenti di spicco del governo, motivata con la lotta alla corruzione, assume un altro aspetto.

Il culto della personalità

Non a caso Khashoggi da tempo viveva in esilio volontario negli Stati Uniti ed in questi giorni si trovava in Turchia: l’altro grande polo del Medioriente, non a caso ai ferri corti con l’Arabia Saudita per l’egemonia nell’area. Il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, ha lasciato che fossero i suoi collaboratori a puntare l’indice contro i sauditi. Lui ha preferito usare toni più dubitativi, evitando un confronto aperto.

Di recente Khashoggi aveva denunciato il pericolo di un vero e proprio culto della personalità creato attorno a bin Salman. “Sui media non si possono dibattere i problemi, perché questo verrebbe interpretato come un segno di debolezza”, aveva detto. Parole che potrebbero essergli costate care

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Fonte: estero agi