Per l'Economist viviamo un paradosso in vista di Cop26


AGI – Il mese prossimo i leader mondiali si riuniranno al summit di Cop26, a Glasgow, per stabilire un percorso preciso di riduzione delle emissioni globali puntando a raggiungere lo zero entro il 2050. E mentre si preparano a rimboccarsi le maniche per i prossimi trent’anni, il primo grande shock energetico dell’era ‘green’ si sta svolgendo davanti ai loro occhi. è il paradosso che rileva The Economist, in prima pagina sull’ultimo numero: i leader presenti al summit Cop26, dovranno spiegare alla fine dell’incontro come funzionerà la transizione. E dovranno farlo magari discutendone in ambienti illuminati da lampadine alimentate a carbone.

Questo perchè il mondo sta vivendo uno shock energetico di notevoli dimensioni, dal quale si può uscire solo diversificando l’offerta e facendo notevoli sforzi economici. Proprio mentre si prepara ad ospitare il summit (il cui inizio previsto è a inizio novembre), ricorda the Economist, la Gran Bretagna è costretta a riaccendere le sue centrali a carbone mentre il prezzo di un paniere di petrolio, carbone e gas è aumentato del 95%. E lo shock sta investendo tutto il Pianeta: i prezzi della benzina americana hanno raggiunto i 3 dollari al gallone, i blackout energetici stanno travolgendo la Cina e l’India, e Vladimir Putin ha appena ricordato all’Europa che il suo approvvigionamento di gas dipende in sintesi dalla buona volontà russa.

Eppure questa sensazione di panico, rileva The Economist, ci ricorda che la vita moderna ha bisogno di energia: senza di essa, le bollette diventano inaccessibili, le case si congelano e le imprese si bloccano. E mentre si punta ad un sistema energetico più pulito, si scopre che gli investimenti sono inadeguati nelle energie rinnovabili e in alcuni combustibili fossili di transizione. Viviamo intanto rischi geopolitici crescenti e non abbiamo paracadute di sicurezza nei mercati energetici. Senza riforme rapide, sottolinea the Economist, “ci saranno più crisi energetiche e, forse, una rivolta popolare contro le politiche climatiche“.

Eppure solo un anno fa, nel 2020, immaginare una tale carenza di energia sembrava impossibile: anzi la domanda globale, allora, era sces del 5%, il massimo dalla seconda guerra mondiale, innescando il taglio dei costi nell’industria energetica. Ma con la ripresa dell’economia mondiale dopo la pandemia, la domanda è aumentata mentre le scorte si sono pericolosamente ridotte. Quelle di petrolio sono solo il 94% del loro livello abituale, i depositi di gas europei l’86% e il carbone indiano e cinese sono ormai sotto il 50%.

Quello che emerge con evidenza, sostiene sempre the Economist, è la vulnerabilità dei mercati agli shock ma anche alla natura per così dire “intermittente” delle fonti rinnovabili: basta pensare al troppo poco vento in Europa, alla situazione di siccità che ha tagliato la produzione idroelettrica dell’America Latina, per non parlare delle inondazioni asiatiche che hanno impedito le consegne di carbone. Ma il mondo, scrive la testata britannica, è ancora in tempo per sfuggire a una grave recessione energetica: gli inconvenienti potrebbero essere risolti e la Russia e l’Opec potrebbero aumentare la produzione di petrolio e gas. Come contropartita, però, avremo un’inflazione più alta e una crescita più lenta. E non solo: ci sono altre questioni che incombono.

I  nodi da sciogliere

  • In primo luogo, “gli investimenti energetici sono a metà del livello necessario per soddisfare l’ambizione di raggiungere lo zero entro il 2050. La spesa per le energie rinnovabili deve aumentare. E l’offerta e la domanda di combustibili fossili devono essere ridotte di pari passo, senza creare pericolosi squilibri. I combustibili fossili soddisfano l’83% della domanda di energia primaria e questa deve scendere verso lo zero. Allo stesso tempo il mix deve spostarsi dal carbone e dal petrolio al gas che ha meno della metà delle emissioni del carbone”. Ma diversi fattori, come anche la pressione degli investitori e i regolamenti troppo stringenti, “hanno portato gli investimenti nei combustibili fossili a crollare del 40% dal 2015”. Il gas è uno degli elementi di pressione. The Economist ricorda che molti paesi, in particolare in Asia, ne hanno bisogno per poter contare su un combustibile ponte negli anni 2020 e 2030, vale a dire passando ad esso temporaneamente mentre abbandonano il carbone, ma prima che le rinnovabili siano aumentate. Oltre a usare i gasdotti, la maggior parte importa il gas naturale liquefatto (Lng). Troppo pochi progetti però stanno entrando in funzione. Secondo la società di ricerca Bernstein, il deficit globale di capacità di GNL potrebbe aumentare dal 2% della domanda attuale al 14% entro il 2030.
  • Secondo problema, come elemento di pressione, è rappresentato dalla geopolitica, dato che le ricche democrazie abbandonano la produzione di combustibili fossili e l’offerta si sposta verso sistemi autocratici con meno scrupoli e costi più bassi, compreso quello gestito da Putin. La quota di produzione di petrolio dell’Opec+ potrebbe aumentare dal 46% di oggi al 50% o più entro il 2030. La Russia è la fonte del 41% delle importazioni di gas dell’Europa e la sua influenza crescerà con l’apertura del gasdotto Nord Stream 2 e lo sviluppo dei mercati in Asia. Il rischio sempre presente è che riduca le forniture.
  • Terzo e ultimo problema citato da The Economist è la progettazione “imperfetta” dei mercati energetici. “La deregolamentazione dagli anni ’90 ha visto molti paesi passare da decrepite industrie energetiche statali a sistemi aperti in cui i prezzi dell’elettricità e del gas sono fissati dai mercati, i quali sono a loro volta composti da fornitori concorrenti che aggiungono offerta se i prezzi aumentano. Il pericolo insomma è che lo shock che stiamo vivendo rallenti il ritmo del cambiamento.

Secondo the Economist, “i governi devono rispondere ridisegnando i mercati dell’energia. Più grandi riserve di sicurezza dovrebbero assorbire le carenze e affrontare il carattere ad intermittenza dell’energia rinnovabile. I fornitori di energia dovrebbero avere più riserve, proprio come le banche hanno un capitale. I governi possono invitare le aziende a fare offerte per contratti di fornitura di energia di riserva. La maggior parte delle riserve sarà nel gas, ma alla fine le tecnologie delle batterie e dell’idrogeno potrebbero prendere il sopravvento. Più impianti nucleari, un sistema che intensifichi la cattura e lo stoccaggio dell’anidride carbonica, o entrambi, sono vitali per fornire un carico di base di energia pulita e affidabile”.

Insomma, la parola chiave è diversificazione. Ad esempio, spiega the Economist, i paesi ventosi o soleggiati e che quindi possono contare su riserve di energia rinnovabile potrebbero esportarla. Oggi solo il 4% dell’elettricità nei paesi ricchi è scambiato oltre confine, rispetto al 24% del gas globale e al 46% del petrolio. “Costruire reti sottomarine” potrebbe essere una soluzione, oltre quella di “convertire l’energia pulita in idrogeno e trasportarla sulle navi”. Tutto questo, ammette the Economist, “richiederà una spesa di capitale per l’energia più che raddoppiata”. Eppure la situazione, soprattutto in alcuni paesi, è complicata e in alcuni casi non esistono piani per come ridurre le bollette. Ostacoli normalivi e legali rendono troppo rischioso investire in progetti di combustibili fossili mentre la risposta ideale, suggerisce the Economist, sarebbe “un prezzo globale del carbone che abbassi inesorabilmente le emissioni, aiuti le aziende a giudicare quali progetti sarebbero redditizi, e aumenti le entrate fiscali per sostenere chi ancora arranca nel percorso di transizione energetica”. 

Source: agi