Patto di stabilità, l’occasione per ridefinire il futuro della Ue


di Amedeo Lepore

L’accordo raggiunto nel Consiglio Europeo sulla revisione del Patto di stabilità e crescita dimostra come la UE possa convergere anche su temi caratterizzati da opinioni distinte e spesso contrastanti. Eppure, a molti questo esito ha lasciato l’amaro in bocca.

Dipende da quale prospettiva si esamina l’accordo. Si tratta di una mediazione: ma una decisione di tale rilevanza e con una storia tanto controversa non può che essere il frutto di una composizione ragionevole di interessi diversi, soprattutto nei tempi dati e in prossimità di scadenza del mandato della Commissione.

Secondo Jack Allen-Reynolds, economista di Capital Economics, le nuove regole della UE sono “più severe”, stabilendo un taglio più solerte dei deficit di bilancio per i Paesi ad alto debito, ma anche “più indulgenti”, permettendo una riduzione più lenta dei livelli di debito. Nel merito della scelta e della sua concreta attuazione, Paolo Gentiloni ha sostenuto che per l’Italia vi sono almeno tre elementi significativi: “il percorso di correzione del deficit che tiene conto dei maggiori costi per i tassi di interesse, il riconoscimento dell’importanza degli investimenti nel PNRR per ottenere un periodo più lungo nell’aggiustamento della finanza pubblica e il riconoscimento dell’importanza delle spese della difesa come aspetto fondamentale nelle valutazioni di politica fiscale”.

Le possibilità di aggiustamento per i Paesi come il nostro sono disposte lungo un arco di tempo fino a sette anni, con una clausola di flessibilità automatica (in caso di scosse esterne) e in una misura accettabile (specialmente se si affretta la crescita). Una complicazione del percorso delineato è costituita dall’inserimento nel Patto di molti parametri numerici che, invece di semplificare, rendono più difficile l’applicazione del meccanismo.

Questa vicenda, però, ha un itinerario complesso e ormai lontano nel tempo. Nel 1992, con la firma del Trattato di Maastricht, allo scopo della creazione della moneta unica, si fissarono i limiti – avulsi dal quadro economico dei Paesi europei e dalle loro differenti condizioni – del 3% del Pil per il disavanzo e del 60% del Pil per il debito pubblico. Quest’ultimo considerato, in seguito, come un traguardo e non una prescrizione tassativa.

Nel 1997, con il varo del Patto di stabilità e crescita, si puntò a consolidare il monitoraggio e il coordinamento delle politiche economiche e di bilancio nazionali per facilitare il rispetto dei vincoli adottati. Nel 2005, con la modifica del Patto, si teneva conto delle componenti cicliche e strutturali nazionali. Dal 2011 al 2013, durante la pesante crisi di quegli anni, si introducevano nuove norme (denominate “six pack” e “two pack”), nell’ambito del potenziamento della governance economica europea, degli obiettivi di bilancio e degli strumenti di controllo.

Nel 2015, con la flessibilità di attuazione del Patto, la Commissione europea ha provato a rinsaldare il legame tra riforme strutturali, investimenti e responsabilità di bilancio, a sostegno di occupazione e sviluppo. Ma è stato solo con il “whatever it takes” di Mario Draghi, prima, e con i provvedimenti per fronteggiare la pandemia, poi, che la politica economica europea ha cambiato nettamente segno, sospendendo pure le regole del Patto di stabilità e degli aiuti di Stato.

In questi ultimi quattro anni, è maturato l’orizzonte di un piano di ripresa e resilienza rivolto, in particolare, alle nuove generazioni e alla trasformazione digitale e ambientale, che, nonostante le difficoltà di messa a regime e decollo, va ritenuto ancora lo strumento principale per realizzare una strategia di sviluppo duratura. Per il Patto di stabilità e crescita, un dato positivo è sicuramente il fatto che le elezioni europee non dovranno sopportare il peso di un tema di questa portata ancora aperto.

Alcune forze, anche tra quelle che oggi ascrivono a loro merito il risultato conseguito, spingevano per un rinvio alla seconda metà dell’anno prossimo, pensando – in un’ottica molto miope – di trarne vantaggio sul piano politico. Tuttavia, in uno scenario di medio-lungo periodo, le questioni irrisolte da affrontare sono numerose. La mancata approvazione delle modifiche al Fondo salva-Stati (MES), oltre a rischiare di minare la credibilità internazionale dell’Italia, può ostacolare il completamento dell’unione bancaria.

Questo obiettivo, insieme a un sempre maggiore coordinamento delle politiche fiscali e di bilancio, è una delle mete fondamentali per evitare nuove crisi e superare l’incompiutezza dell’integrazione economica europea, rafforzando la fiducia nella ripresa di un processo di unificazione politica. In questo contesto, emergono quattro fattori decisivi.

La coerenza temporale tra gli impegni assunti e la loro esecuzione – spesso negata nell’esperienza italiana – deve permettere una stretta connessione dei piani in corso con le strategie di stabilità, riequilibrio e crescita. L’attenuazione dei tassi di interesse può essere perseguita dalla BCE, visto il calo dell’inflazione. La diminuzione del debito pubblico, che non è un orpello, può essere combinata con un’accelerazione di riforme e investimenti produttivi, intensificando una sfida per l’Italia.

Infine, l’esigenza di una consistente risalita del tasso di crescita e della produttività – avvertita soprattutto in Italia, ma ora anche in Germania – richiede non solo investimenti pubblici, ma un vasto dispiegamento degli investimenti privati e del ruolo delle imprese. In fin dei conti, anziché favorire il ritorno di un atteggiamento populista ed antieuropeo, questa potrebbe essere l’occasione per rilanciare seriamente il dibattito sull’Europa, non facendone un argomento di mera contesa politica, ma la prospettiva di fondo per ridefinire il ruolo attivo dell’Italia, verificare la capacità dell’Unione di recuperare speditamente il cammino dell’integrazione e costruire un futuro europeo di sviluppo nei nuovi assetti geopolitici globali.

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