«Occidente troppo timido, Nato in ritardo Si potevano evitare tragedie in Ucraina Biden? Si allontana dalla Casa Bianca»


Nathalie Tocci, direttrice dell’IAI, critica la risposta occidentale: «Lenta, con il contagocce. E siamo deboli sul conflitto israelo-palestinese». Ma su Orbán assicura: «Ha zero peso, è tutto uno show»

Luca Sablone

La Nato ha giurato sostegno perpetuo all’Ucraina, garantendo ulteriori aiuti per la difesa aerea. Ma per Nathalie Tocci si tratta di una risposta «insufficiente», anche perché i Patriot o i SampT «avrebbe potuto evitare» la tragedia all’ospedale pediatrico di Kiev. La direttrice dell’Istituto Affari Internazionali critica il sostegno occidentale «col contagocce» e denuncia che in Italia l’obiettivo del 2% del Pil per le spese militari «è ancora lontano». In attesa delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti, l’Ue deve fare i conti con l’iperattivismo di Viktor Orbán alla guida del semestre ungherese. «Ha zero peso, è tutto uno show», rassicura Tocci. Che invita a rivedere l’obiettivo fissato dal premier israeliano Netanyahu sull’eliminazione di Hamas: «Non si estirpa un’idea, si sconfigge politicamente». Quanto al Piano Mattei, non manca un’ammonizione all’Europa sul «bagaglio del colonialismo» di molti paesi: «Non ci sono angeli, siamo tutti considerati responsabili».
Il recente vertice Nato ha garantito un sostegno «forte e incrollabile» all’Ucraina, aumentandone tra l’altro la difesa aerea. È una risposta tardiva?
«Più che tardiva direi insufficiente. I paesi occidentali hanno sostenuto l’Ucraina sin dall’inizio dell’invasione russa. Questo ha senza dubbio permesso all’Ucraina di resistere. Ricordo che a oggi (ossia a quasi due anni e mezzo dall’invasione su larga scala) la Russia è riuscita a conquistare solo circa il 5% in più di territorio ucraino rispetto al 14% che aveva già occupato nel 2014. Il problema del supporto occidentale è che è (e continua a essere) col contagocce. Questo era vero nel 2022 così come lo è oggi. E questa gradualità, dettata dalla nostra paura (o chi direbbe dalla nostra cautela?), ha paradossalmente allungato la durata della guerra e soprattutto il numero di vittime ucraine».
I jet operativi sui cieli di Kiev, utili per respingere gli attacchi della Russia, avrebbero potuto scongiurare la tragedia all’ospedale pediatrico?
«I jet, ma soprattutto i sistemi di difesa aerea (come i Patriot o i SampT), avrebbero potuto evitare questa tragedia così come innumerevoli altre in questi due anni. È precisamente questo a cui mi riferisco quando parlo di una lentezza e gradualità eccessiva nel supporto occidentale che non ha fatto altro che alimentare l’escalation e la violenza russa, pur essendo mirate teoricamente a contenerla».
Il futuro ucraino è davvero nell’Alleanza o vede ancora troppa incertezza?
«Credo che il futuro ucraino sia nelle strutture politiche e nello spazio euroatlantico. Sicuramente questo significa l’integrazione europea dell’Ucraina. Sulla sua adesione alla Nato sono convinta che i paesi europei arriveranno presto a considerarla essenziale (non per amore dell’Ucraina ma per interessi europei, visto che l’Ucraina – volenti o nolenti – è nel nostro Continente). Sono meno convinta che sarà così per Washington, ma questo si collega al progressivo distacco degli Stati Uniti dalla sicurezza europea. Non ci piace farlo, ma saremo costretti a crescere sulla sicurezza e la difesa».
La presidente Meloni ha rassicurato gli alleati sul 2% del Pil per le spese militari, ma la Lega continua a insidiare l’atlantismo italiano…
«Il problema è che il 2% dell’Italia è ancora lontano. Mentre tutti gli altri alleati della Nato tranne una manciata di paesi (come Spagna, Belgio, Lussemburgo e Canada) avranno raggiunto o superato il 2% entro la fine di quest’anno, l’Italia è ancora a diversi anni di distanza (nella migliore delle ipotesi). Ossia qualora dovesse tornare Trump alla Casa Bianca (scenario quantomeno plausibile), considerando la sua ossessione per il 2%, nel mirino di Washington ci sarà in primis l’Italia, che non solo quest’anno, ma anche nei prossimi rimarrà ancora lontana dal 2%».
A proposito di Stati Uniti. Biden non smette di fare gaffe, l’ultima proprio in queste ore. Alla fine si ritirerà dalla corsa per la Casa Bianca?
«La pressione sul presidente aumenta, dal partito e dai donatori. Diciamo che, al netto di quello che ripete il presidente (ossia di non voler lasciare la corsa), diventa ogni giorno meno probabile che sul ticket di novembre ci sarà il suo nome».
Viktor Orbán nel giro di pochi giorni ha incontrato Vladimir Putin e Xi Jinping, di fatto terremotando l’Unione europea. Quale piano ha in mente il premier ungherese?
«È il piano di Trump o forse di Putin. Orbán ha zero peso, è tutto uno show».
Non crede che comunque Orbán, al di là del giudizio sulle sue visite, sfrutti un vuoto politico? In Europa c’è una grave assenza di un potenziale mediatore per la pace…
«Penso che la parola pace vada usata con cura. Qui non si tratta di pace ma di resa, o più accuratamente di uno stop temporaneo che permetterebbe a Putin di rimpinguare le sue forze. Chi pensa ci sia davvero una pace degna del nome e duratura nel tempo attraverso una resa ha vissuto su Marte non solo dal 2022, ma oserei dire dall’invasione russa della Georgia nel 2008».
Il sostegno dell’Occidente a Israele non è convinto e compatto come quello mostrato verso l’Ucraina. È solo una falsa percezione?
«Direi che mentre nel caso della guerra in Ucraina c’è unità di visioni e politiche (Orbán a parte), nel caso del conflitto israelo-palestinese siamo tragicamente divisi. Lo siamo oggi così come lo eravamo dopo il 7 ottobre. In verità lo siamo da diversi anni (ma facevamo finta di niente, ignorando il conflitto e pensando che potesse essere bypassato attraverso una normalizzazione israelo-saudita). Il risultato è stato il 7 ottobre. E le nostre divisioni e la nostra debolezza hanno contribuito all’incapacità di esercitare la men che minima pressione su Israele per fermare una guerra che con ogni probabilità (e al netto delle nostre opinioni a riguardo) verrà definita genocida negli anni a venire dalle Corti internazionali».
Il premier israeliano Netanyahu lo ha sempre giurato: bisogna estirpare Hamas. Si riuscirà a eliminare definitivamente l’organizzazione terroristica?
«Certo che no. Non si estirpa un’idea, si sconfigge politicamente. Militarmente Hamas può essere, ed è stata, temporaneamente indebolita. Ma sarebbe folle non riconoscere che i palestinesi che rimarranno nella Striscia (così come in Cisgiordania), dopo ciò che accaduto negli ultimi mesi, ciò che continua ad accadere ogni giorno e ciò che accadrà nei prossimi mesi (e anni) non diventeranno sempre più radicalizzati. È un dono enorme che Israele sta facendo ad Hamas».
A Bruxelles l’asse tra popolari, socialisti e liberali sembra resistere. In Francia le desistenze hanno fermato il Rassemblement National. La destra in Europa è stata arginata o c’è da aspettarsi una nuova avanzata, magari anche più imponente, nei futuri appuntamenti elettorali?
«Da un lato il centro regge e bisogna mantenere la calma e andare avanti. Dall’altro, la rana liberaldemocratica ed europeista rischia così di morire bollita nell’acqua mentre la temperatura nazionalpopulista viene progressivamente alzata. È difficile dire oggi quali di queste due tendenze prevarrà sull’altra negli anni a venire».
Condivide l’intuizione del Piano Mattei, ma denuncia un problema reputazionale e un bagaglio coloniale con cui bisogna fare i conti. A chi si riferisce in particolar modo?
«Al modo in cui siamo percepiti nella Regione. Il bagaglio del colonialismo di molti paesi europei. È inutile nascondersi dietro a un dito, scaricando tutta la responsabilità ad esempio sulla Francia. Non ci sono angeli in Europa, e siamo tutti – in forme, misure e modalità diverse – considerati responsabili. Ma mi riferisco anche a tutti quei comportamenti nei decenni e negli anni passati che non hanno fatto altro che rinsaldare le percezioni nei nostri confronti. Penso ai rapporti commerciali a vantaggio soprattutto dell’Europa, all’indisponibilità europea di aprire il proprio mercato agricolo all’Africa, alla nostra ingordigia di vaccini durante il Covid, alla finanza climatica tanto strombazzata ma che poi non si concretizza, all’estrattivismo europeo delle risorse naturali africane, o alla nostra ossessione e al nostro terrore dell’immigrazione. Ci riempiano la bocca con il fatto che vogliamo costruire rapporti non predatori e paritetici “con” l’Africa, ma poi lo chiamiamo il Piano Mattei “per” l’Africa. E gli africani se ne sono accorti. Gli africani ascoltano i nostri dibattiti spesso autoreferenziali, stile “aiutiamoli a casa loro”. E non facciamo altro che confermare i pregiudizi nei nostri confronti».
C’è anche un tema di risorse. Tutto messo nero su bianco, teoricamente, ma i soldi arriveranno mai a terra?
«Per ora si sono cambiate etichette e aggiunto poco più. Si è cercato di mobilitare altri finanziamenti, penso ad esempio alla partnership for infrastructure and investment in Africa del G7. Ma per ora il coordinamento e i finanziamenti aggiuntivi sono su carta. Mi auguro che nei mesi si inizierà a vedere qualcosa di più concreto, oltre alla photo-ops».

Fonte: Il Riformista