Nell’ottobre 2020 il primo ministro Yoshihide Suga ha annunciato l’impegno del Giappone a conseguire le zero emissioni nette entro il 2050. Per decenni il Giappone è stato riluttante a fissare obiettivi ambiziosi per la riduzione delle emissioni, sostenendo di aver già raggiunto il più alto livello di efficienza energetica del mondo, e che eventuali altre attività volte a ridurre ulteriormente le emissioni avrebbero finito per gravare sulle industrie del paese e sui consumatori finali. La maggioranza della popolazione sostanzialmente riconosce la scienza del cambiamento climatico, ma simpatizza anche con le argomentazioni secondo cui i primi a dover procedere alla riduzione delle emissioni dovrebbero essere i maggiori emettitori di gas serra, Cina e Stati Uniti in primis. Vi è inoltre chi insiste sul fatto che le emissioni del Giappone costituiscono solamente dal tre al quattro percento delle emissioni globali, e che pertanto l’eliminazione graduale delle emissioni giapponesi non aggiungerebbe niente di sostanziale alla soluzione del problema del cambiamento climatico. L’inatteso annuncio del primo ministro Suga è stato una vera sorpresa per molti. I decisori politici giapponesi sono improvvisamente diventati verdi? L’impegno alla neutralità carbonica è forse l’effetto di pressioni interne o esterne? Questo breve articolo propone una sintesi della dimensione sociopolitica del percorso del Giappone verso le zero emissioni nette.
Dalla convezione quadro del ’92 al primo obiettivo di riduzione
Il paese partecipa con continuità al dibattito internazionale sulle emissioni di gas serra sin dalla negoziazione della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UN Framework Convention on Climate Change) dei primi anni Novanta. A ogni appello a fissare obiettivi di riduzione delle emissioni, tuttavia, il Giappone ha sempre risposto limitandosi a discutere per lo più del proprio potenziale di risparmio energetico, espresso in termini di energia per PIL. Almeno fino ai primi anni Duemila, l’energia per PIL del Giappone è stata relativamente migliore di quella di molti altri paesi sviluppati; sulla base di questa considerazione, le industrie giapponesi si sono opposte alla fissazione di obiettivi ambiziosi di riduzione delle emissioni. Il Giappone ha in genere definito la propria politica energetica ancor prima di darsi obiettivi di riduzione delle emissioni, preferendo sempre, come fonte di energia, il carbone, più abbondante ed economico. Il paese ha anche optato per l’energia nucleare, individuando in essa il mezzo più efficiente per mitigare il cambiamento climatico senza intaccare le attività industriali, considerando le energie rinnovabili quali la solare e l’eolica troppo dispendiose e geograficamente inadatte alla topografia prevalentemente montuosa del Giappone.
Il Giappone ha fissato il suo primo obiettivo di riduzione delle emissioni per il 2030 solo nel luglio 2015, poco prima dell’Accordo di Parigi, adottato nel dicembre dello stesso anno. La mentalità dei decisori politici giapponesi, tuttavia, non è cambiata: hanno semplicemente indicato un obiettivo quantitativo di riduzione delle emissioni che allora appariva valido pur senza comportare una riduzione delle emissioni che fosse significativa in termini assoluti. Ad anno base è stato scelto il 2013, anno in cui il paese registrava le emissioni più alte dal 1990, per effetto della chiusura delle centrali nucleari a seguito dell’incidente di Fukushima Daiichi del 2011 e della loro sostituzione con centrali elettriche a combustibili fossili. La scelta dell’anno con le emissioni più elevate come anno di riferimento ha consentito al Giappone di assumere un impegno all’apparenza ambizioso quanto quelli di altre nazioni, con la proposta di una riduzione delle emissioni del 26 percento entro il 2030 rispetto ai livelli del 2013.
L’Accordo di Parigi, adottato nel dicembre 2015, ha fissato l’obiettivo a lungo termine di mantenere l’aumento delle temperature globali al di sotto dei 2 gradi Celsius e di continuare le azioni per contenerne comunque l’aumento entro 1,5 gradi Celsius. All’epoca, il Giappone tenne su quest’obiettivo a lungo termine una posizione ambigua. Nel paese vi era chi si aspettava che gli Stati Uniti si ritirassero dall’Accordo di Parigi non appena Donald Trump avesse vinto le elezioni presidenziali del 2016, rendendo di fatto inefficace l’Accordo, proprio come era successo con il Protocollo di Kyoto
Il rapporto dell’ipcc e il dibattito sullo zero netto
Tuttavia, a seguito della pubblicazione dello speciale rapporto sull’obiettivo degli 1,5 gradi Celsius dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico) nell’autunno 2018, molti paesi hanno preso a dichiarare obiettivi di zero netto entro il 2050. In Giappone, a prendere l’iniziativa e guidare il dibattito sullo zero netto non è stato il governo centrale ma sono stati attori quali imprese, governi locali e soggetti privati. Sempre più le aziende private giapponesi hanno visto le proprie controparti estere darsi volontariamente obiettivi di riduzione delle emissioni e di transizione alle energie rinnovabili, e hanno pertanto iniziato a far pressione sul governo centrale perché fissasse e sostenesse obiettivi analoghi. Iniziative internazionali quali la Task Force on Climate-Related Financial Disclosures (TCFD) e gli investimenti in Environment-Social-Governance (ESG) hanno avuto un forte impatto sulle aziende private giapponesi. Parallelamente, i governi locali del Giappone si sono uniti ai movimenti per il clima dei governi locali del resto del mondo, facendo pressione sul governo centrale per sostenere la promozione delle energie rinnovabili. Queste azioni volontarie di livello locale si sono dimostrate efficaci. Nel 2019 le emissioni di gas serra del Giappone sono diminuite del 14 percento rispetto al 2013, e nei primi sei anni le emissioni nazionali erano già a metà strada verso l’obiettivo del 2030.
Sotto la pressione delle imprese nazionali e dei governi locali, nell’estate del 2020 il governo giapponese ha deciso di eliminare gradualmente tutte le centrali a carbone poco efficienti e obsolete. Nel settembre dello stesso anno la Cina ha annunciato l’obiettivo a lungo termine di conseguire lo zero netto entro il 2060, ed è aumentata la probabilità di Joe Biden di vincere le presidenziali negli Stati Uniti: tutto questo ha portato il Giappone a preoccuparsi che la mancata fissazione di un obiettivo di zero netto al 2050 lo portasse a un ritardo rispetto ad altre nazioni ed economie.
2021, Tokyo alza l’asticella
Le pressioni interne ed esterne hanno spinto il Giappone a presentare il proprio obiettivo per il 2050; due mesi dopo l’annuncio del primo ministro Suga (avvenuto nell’ottobre 2020), il governo ha pubblicato il rapporto “Strategia di crescita verde attraverso il conseguimento della neutralità carbonica nel 2050” (Green Growth Strategy Through Achieving Carbon Neutrality in 2050). All’epoca, il governo non aveva particolare fretta, poiché riteneva di poter attrarre investimenti in tecnologie innovative per idrogeno e ammoniaca in quantità sufficienti a raggiungere gli obiettivi indicati nel rapporto. Tuttavia, quando il neoeletto presidente Joe Biden ha annunciato che gli Stati Uniti avrebbero illustrato il proprio obiettivo sulle emissioni per il 2030 in occasione del Leaders Summit on Climate in programma per l’aprile 2021, il Giappone ha dovuto alzare l’ambizione del proprio obiettivo per il 2030, portandolo dal 26 percento al 46 percento. Per il Giappone, questo nuovo obiettivo è essenziale al conseguimento dello zero netto al 2050, ma ancora si discute di quali misure adottare per raggiungere il nuovo obiettivo fissato per il 2030. In realtà, questa è la prima volta che il Giappone definisce la propria politica energetica dopo aver definito l’obiettivo di riduzione delle emissioni. A mio parere, a differenza dell’obiettivo dello zero netto al 2050, il nuovo obiettivo al 2030 non è che il risultato di pressioni esterne, in particolare della pressione esercitata sul governo giapponese dalla nuova amministrazione statunitense. A livello nazionale, in Giappone sono poche le obiezioni all’obiettivo in sé, ma sono anche pochi coloro che, nel governo, mostrano la volontà di assumere la piena responsabilità di questo nuovo obiettivo.
Ancor più cruciale è la mancanza consultazione della popolazione. Negli ultimi anni il Giappone viene spesso colpito duramente da piogge e tifoni violenti, con vittime e distruzione di edifici e proprietà. La popolazione comincia a rendersi concretamente conto della realtà dei cambiamenti climatici e del loro legame con il riscaldamento globale, ma, diversamente da quanto accade in molti altri paesi, in Giappone è raro vedere scioperi di studenti e di giovani e manifestazioni di cittadini per il clima, forse proprio per la natura stessa della cultura giapponese, che tende intrinsecamente a evitare l’autoaffermazione e il conflitto. Sebbene sia sufficientemente istruita ed edotta da comprendere la correlazione tra emissioni di gas serra e modelli meteorologici estremi, sembra ancora che la maggioranza della popolazione lasci la questione al governo, confidando che questo la risolva con l’introduzione di nuove tecnologie. I terremoti hanno poco a che vedere con il riscaldamento globale, ma i giapponesi li accomunano agli eventi meteorologici estremi e pongono entrambi sotto il grande ombrello della prevenzione delle catastrofi, mentre sono meno inclini a cogliere il legame tra gli eventi meteorologici estremi e la necessità di ridurre le emissioni.
Analogo è il comportamento di molte aziende, che supportano l’obiettivo dello zero netto meramente per non essere lasciate indietro dai propri partner occidentali e per cogliere le nuove opportunità di business determinate dall’obiettivo stesso. Queste aziende non sembrano comprendere appieno perché si debba conseguire lo zero netto e che cosa accadrebbe se si superassero le soglie degli 1,5 e dei 2 gradi Celsius.
Comprensione del fenomeno e coinvolgimento della popolazione
Nel novembre 2021 si terrà a Glasgow la 26a Conferenza delle Parti sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite (COP26), per cui si attende ormai che i vari paesi espongano come intendono raggiungere ciascuno i propri obiettivi sulle emissioni. In Giappone, mentre scrivo questo articolo (all’inizio del luglio 2021), la questione più urgente per il governo sono però i Giochi olimpici, che si terranno quest’estate a Tokyo, e l’attenzione pubblica è ancora concentrata sul Covid-19. In autunno si avranno le elezioni generali, per cui i politici non sono propensi a prendere posizione sulla questione delle centrali nucleari, e si prevede che né i funzionari del governo né i politici prenderanno iniziative nel dibattito sulla neutralità carbonica. Altra fonte di pressione esterna in vista della COP26 è probabilmente la necessità che il Giappone riprenda a discutere in modo approfondito dell’integrazione di una società a emissioni zero nette. Coinvolgere la popolazione nel dibattito sul clima, come avvenuto nel Regno Unito e in Francia con le assemblee dei cittadini, potrebbe fare da trampolino di lancio per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importanza di impegnarsi nei movimenti per il clima. Ciò che più serve al Giappone per conseguire la neutralità carbonica entro il 2050 è comprendere la natura intrinsecamente critica dei cambiamenti climatici.
* Yasuko Kameyama è direttrice della Social Systems Division presso il National Institute for Environmental Studies, Giappone. Articolo pubblicato sul numero di luglio 2021 di WE World Energy
WE World Energy è il magazine internazionale sul mondo dell’energia pubblicato da Eni – diretto da Mario Sechi – che con il suo portato di esperienza e scientificità si è guadagnato una posizione di grande rilievo nel panorama internazionale dei media di settore.
Source: agi