Nel 1885 il giornale Pittsburgh Dispatch pubblicò un articolo nel quale l’editorialista argomentava che il compito naturale delle donne è prendersi cura della famiglia. Lavorare è «un’aberrazione», diceva. Tra le lettere di protesta che il giornale ricevette, una in particolare, fiera e decisa, colpì il caporedattore, tanto da indurlo a pubblicare un annuncio in cui chiedeva all’autrice, che si era firmata Lonely Orphan Girl (ragazza orfana e solitaria), di presentarsi al giornale.
Fu così che la ventunenne Elizabeth Jane Cochran, figlia del secondo matrimonio di Michael, uno speculatore immobiliare deceduto anni prima, e di Mary Jane, ebbe il suo primo lavoro come giornalista. Come era d’abitudine a quel tempo per le ragazze, la giovane scelse uno pseudonimo: Nellie Bly.
Tuttavia, in meno di due anni la rubrica femminile che le era stata assegnata le venne tremendamente a noia. Allora prese una decisione drastica: si trasferì in Messico per lavorare come corrispondente. Scrisse della vita quotidiana, dello sfruttamento dei contadini e degli operai, e della corruzione. In capo a sei mesi aveva fatto infuriare persino il dittatore Porfirio Díaz, cosicché fu costretta a fuggire precipitosamente dal Paese.
Si trasferì a New York e bussò alla porta di Joseph Pulitzer, direttore del New York World, il quotidiano con maggiore tiratura a livello nazionale. Pulitzer le assegnò subito una missione difficile e pericolosa: spacciarsi per pazza, introdursi sotto copertura in un manicomio di New York e scrivere un reportage. «Come farete poi a tirarmi fuori?» fu la prima, intimidita, domanda di Nellie. «Prima pensa a entrare», fu la risposta.
Nellie la pazza
Le bastò una sola notte di prove davanti allo specchio per simulare la pazzia. Convinse senza sforzo i poliziotti che la arrestarono – dopo la chiamata spaventata dei gestori dell’hotel in cui alloggiava – i medici che certificarono la sua «demenza» (dopo poche parole scambiate con lei) e il giudice che firmò l’ordinanza. Nellie fu portata all’ospedale psichiatrico Bellevue. Lì ebbe modo di parlare con Anne Neville, una cameriera che aveva perso il lavoro per via di una malattia cronica. Dopo una convalescenza presso un istituto religioso, Anne era stata trasferita al Bellevue quando il nipote non era stato più in grado di pagare la retta.
Ciò che colpì Nellie fu che con Anne c’erano altre donne, perfettamente ragionevoli, internate perché non potevano permettersi una casa. Per loro l’ospedale psichiatrico era più un parcheggio che un istituto di recupero.
Nellie fu sottoposta a vari esami, inutili a modificare il referto redatto al momento del suo ricovero: pazzia. Quindi venne trasferita al manicomio femminile di Blackwell’s Island, che sorgeva su una striscia di terra a pochi metri dalle rive di Manhattan. Il primo incontro fu con alcuni psichiatri distratti; ponevano a tutte le stesse domande senza ascoltare le risposte, che servivano solo a confermare quello che già avevano deciso: che erano folli. Le pazienti ricoverate a Blackwell’s Island erano condannate all’ergastolo perché a nessuna era data la possibilità di provare la propria sanità mentale. Era facile entrare ma arduo uscire.
Torture continue
All’interno del manicomio la giornalista patì le dure condizioni di vita a cui erano sottoposte le pazienti. Il reportage che avrebbe pubblicato in seguito era preceduto da uno schematico riassunto delle esperienze vissute: «Una strana visita medica che non ha visitato nulla. Una lunga attesa per mangiare al freddo. Niente coltelli né forchette. Cibo insipido e inadeguato. Quasi annegata in una vasca di acqua ghiacciata. Sapone solo una volta alla settimana. Messa a letto con i vestiti bagnati. Rumori notturni. L’orrore del fuoco in una stanza chiusa e sbarrata. Infermiere che provocano e tormentano le pazienti, e le tengono con la testa sott’acqua fin quasi ad annegarle. Castighi alle sventurate che chiedono protezione».
Nellie fu anche testimone della sofferenza di altre detenute. C’era per esempio una donna di circa diciotto anni con problemi di salute mentale che s’infuriava quando veniva contraddetta. «Le infermiere si davano da fare per infastidirla […] È diventata sempre più isterica, finché non le sono saltate addosso, l’hanno schiaffeggiata e colpita in testa. Questo ha fatto piangere ancora di più la poveretta, così hanno cominciato a stringerle il collo con le mani. Poi l’hanno trascinata nella stanzetta e ho sentito come le sue urla di terrore venivano soffocate».
L’agognato momento della liberazione si presentò quando Nellie ricevette la visita dell’avvocato del giornale. Aveva trascorso dieci giorni nel manicomio femminile. Appena fuori si mise immediatamente al lavoro, e poco dopo uscì il suo articolo “Dietro le sbarre di un manicomio”, che scatenò un putiferio: gli psichiatri e le infermiere offrirono scuse e giustificazioni, ma lo scandalo non si placò.
Bly raccontò le continue umiliazioni subite dalle pazienti da parte del personale medico: mancanza di cibo e di riparo e maltrattamenti che sfociavano in vere e proprie percosse
Giornalista infiltrata
Il servizio la consacrò dall’oggi al domani come una stella della carta stampata. Più della fama, ciò che la rese fiera fu il risultato della sua inchiesta: un milione di dollari fu stanziato per il miglioramento delle condizioni di vita dei manicomi e di conseguenza per le donne che aveva conosciuto da infiltrata. Il giornalismo sotto copertura divenne la sua specialità. Poco dopo l’esperienza del manicomio si fece assumere come operaia in una fabbrica del Lower East Side per costruire scatole, con un salario pressoché irrisorio. L’articolo uscì con il titolo – sensazionalistico, come usava il New York World – “Nellie Bly ci racconta cosa significa essere una schiava bianca”. In un’altra occasione contattò un lobbista del parlamento di Albany, Edward Phelps, spacciandosi per la moglie di un importante industriale farmaceutico. Chiedeva aiuto per affossare una legge che rendeva obbligatoria la prescrizione medica per un particolare farmaco. Il lobbista le presentò la lista dei deputati corruttibili e la relativa tariffa.
Fonte: storicang.it