di Danilo Di Matteo
Ci sono dei casi nei quali sembra davvero, per dirla con Hegel, che il vero sia l’intero. È dai decenni di attività di Giorgio Napolitano, ad esempio, che davvero emerge chi egli sia stato. È da tutta la sua vita che prendono forma e consistenza il suo spessore e il suo valore. Questo o quel momento, questo o quel passaggio possono presentare insidie e contraddizioni, ma è l’insieme che ne restituisce l’acume e il senso.
Mi aveva lasciato l’amaro in bocca, nel 1992, poniamo, la vicenda della sua elezione alla presidenza della Camera. Un passaggio sicuramente mortificante per Stefano Rodotà. Ma poi, nel 1994, l’allievo di Giorgio Amendola impartì una lezione di politica e di cultura all’Italia intera in occasione del confronto diretto pre-elettorale con Silvio Berlusconi. In quell’occasione davvero compresi la sua statura umana e politica e la sua brillante oratoria, percependolo come un compagno e un amico.
Come sostenevano gli antichi, prima di considerare qualcuno amico, bisognerebbe mangiare con lui molti medimni di sale. È così che lo si conosce e se ne apprezza l’affidabilità. Sì, l’amico, o il compagno, dovrebbe mostrarsi bébaios, affidabile, degno di fiducia, durevole, stabilmente presente. Nello stesso tempo, tuttavia, l’amicizia è “intemporale”, senza tempo. Essa non viene meno neppure con la morte.
Ecco, Giorgio Napolitano da un lato, alla prova dei fatti, si è rivelato un grande amico e un grande compagno; dall’altro continua per noi a esser tale, continueremo a ricordarlo e a scrivere di lui. Egli sopravvive anche alle orazioni funebri, pur toccanti, e ci accompagnerà a lungo, a dispetto del tempo che passa.
Condivideremo ancora pensieri e stati d’animo con lui, grazie a un confronto tenace con la sua opera. Un confronto che non viene meno, ne sono certo, dopo un epitaffio.