di Luca Bianco
Insomma, giù le mani dalla Fornero. Anche perché, più passano gli anni e più il sistema pensionistico pesa come un macigno nella spesa pubblica. E ora ci si mette pure l’inflazione, si legge nella Nadef, con una spesa che, per il 2023, toccherà la quota record di 317 miliardi di euro. L’anno prossimo, in rapporto al Pil italiano, le pensioni assorbiranno il 21,1% del Prodotto interno lordo. Percentuale che dovrebbe stabilizzarsi intorno al 20,7% due anni dopo. Per la cronaca, nel 2022 era di poco superiore al 15%. Certo, sul lungo periodo, con il pensionamento generalizzato di tutta la generazione dei baby-boomer e di quella seguente la situazione andrà monitorata. Ed è per questo che, come fatto notare più volte quest’anno dal ministro dell’Economia, gli interventi a sostegno della natalità – a partire dal potenziamento dell’assegno unico per secondo e terzo figlio – saranno una delle tre priorità assolute della manovra. Di converso, chiunque provi ad attentare alla struttura contributiva messa in piedi da Elsa Fornero, verrà fermato anche con la forza se necessario: “Le regole introdotte nel regime contributivo nel 2004, 2010 e successivamente nel 2011 (Fornero), elevando i requisiti di accesso per il pensionamento di vecchiaia e anticipato, hanno migliorato in modo significativo la sostenibilità del sistema nel medio-lungo periodo”. Mentre l’applicazione di misure come ad esempio “Quota 100 – introdotta da Matteo Salvini nel 2019 – favorendo il pensionamento anticipato hanno determinato per gli anni 2019-2021 un sostanziale incremento del numero di pensioni in rapporto al numero di occupati”. Insomma, un chiaro segnale di qual è la strada da non seguire. Firmato Giorgetti.
Piccole interruzioni di percorso, quella sulle pensioni minime o quella sulla tassa piatta, che se si verificheranno saranno dovute principalmente alle zavorre Superbonus e tassi d’interesse più elevati di cui HuffPost ha scritto ieri. Zavorre che costringono Giorgetti, come già annunciato mercoledì scorso dopo il Consiglio dei ministri che ha approvato il documento che fa da base al Documento Programmatico di Bilancio da spedire all’Ue entro metà ottobre, a fare deficit. E non solo per 14 miliardi di euro, come era emerso in questi giorni. Lo scostamento aggiuntivo che il governo dovrà chiedere al Parlamento di autorizzare si attesta a una cifra decisamente elevata: “Gli spazi finanziari che si rendono disponibili – come si legge nella Nota – sono pari a 3,2 miliardi nel 2023, 15,7 miliardi nel 2024 e 4,6 miliardi nel 2025”. Non solo, dunque, i 14 dell’anno prossimo si sono trasformati in 15,7. Ma se ne aggiungono più di tre solo quest’anno – che saranno subito utilizzati nei prossimi giorni per alcuni provvedimenti dedicati all’immigrazione, all’adeguamento delle pensioni e per la pubblica amministrazione – e quasi cinque che andranno a costituire la prima dote per la manovra del 2025.
Sempre che nel 2024, anno decisivo se guardiamo alle cifre di questo maxi-scostamento, il Pil riesca a confermarsi sui numeri programmatici calcolati dal Mef. E qui entra in gioco il Pnrr: “La ripresa” della crescita dopo il rallentamento degli ultimi mesi del 2023, “è attesa proseguire” nel 2024, “favorita dall’impulso agli investimenti privati fornito dal Pnrr e dal rientro dell’inflazione verso l’obiettivo statutario della Bce”. Tradotto: se quei 15,7 miliardi rimarranno tali e non si gonfieranno, dipende dal rientro dell’inflazione e soprattutto dalla reale messa a terra del Recovery italiano, obiettivo decisamente fallito quest’anno. Il governo proverà a dare una spinta importante a questi investimenti dall’anno prossimo: “Con l’aggiornamento delle proiezioni sull’utilizzo dei fondi legati al Pnrr – il riferimento è al lavoro di riorganizzazione del Recovery messo in campo dal ministro Raffaele Fitto – si è proceduto a una rimodulazione della loro allocazione temporale. Da ciò è scaturita una maggiore concentrazione della spesa negli anni finali del Piano, a partire dal 2024”. A fronte di queste nuove ipotesi, il valore degli investimenti europei in rapporto al Pil, scrivono dal Tesoro, “è previsto portarsi al 2,9% nel 2023, per poi salire ulteriormente fino al 3,4% nel 2025 e ridiscendere al 3,2% nel 2026”. Percentuali che, però, qualora il governo non dovesse riuscire a cambiare marcia rispetto a quanto fatto finora sul Pnrr, diventerebbero dei semplici numeri scritti su un foglio di carta.
Fonte: HUFFPOST