Fino al 31 dicembre Villa Aurea nel Parco archeologico di Agrigento ospita la mostra “La bottega di Leonardo” che, curata da Vittorio Sgarbi e Nicola Barbatelli, riveste il carattere dell’evento nazionale perché è stata ideata dalla Mediatica di Catania e promossa dalla Samar Company di Palermo per essere allestita proprio in Sicilia. Non avrà altre tappe e costituisce dunque un’occasione unica per conoscere in concreto gli allievi del genio fiorentino, alcuni dei quali, come Cesare da Sesto (attivo anche in Sicilia al punto da costituire il vettore del leonardismo nell’isola), hanno quasi eguagliato il maestro quanto a esito qualitativo. La scelta della Valle dei templi è dovuta a Sgarbi, che da tempo è impegnato in un’opera di compenetrazione di antico e moderno entro uno spirito neo-umanistico. Notevoli in questa prospettiva le opere in esposizione, per un totale di dodici, intestate tra gli altri a Marco D’Oggiono, Giampietrino, Martino Piazza, Marzio da Lodi.
La mostra, a quattro mesi circa dall’apertura, sconta l’equivoco di partenza legato alla presenza della “Vergine Cheramy”, dipinto creduto di Leonardo ma che invece è della sua scuola e in particolare, secondo le più ultime acquisizioni, di Giovanni Antonio Boltraffio. La mancanza di un catalogo che faccia da guida (prossimo alla stampa dopo che si è pensato di integrarlo con la traduzione dei testi in inglese per la prevalenza di visitatori stranieri), il titolo completo della mostra (“La bottega di Leonardo, La Vergine delle Rocce”, con una preponderante evidenza grafica data nei depliant al capolavoro leonardesco, trascritto anche in inglese), il fatto che in sede di presentazione anche Sgarbi insistette sulla “Vergine delle rocce” non parlando della Cheramy, nonché la didascalia – “Leonardo e collaboratore (Boltroffio?) – che accompagna il dipinto (nato come tavola e poi trasferita su tela) hanno influenzato la supposizione che si tratti di una mostra di Leonardo più che della sua bottega. E soprattutto hanno fatto credere che la “Vergine Cheramy” sia di sua mano. “So del malinteso che si è creato – dice all’AGI Nicola Barbatelli, storico dell’arte napoletano e co-curatore. – Noi abbiamo presentato la mostra sottolineando chiaramente la problematicità del dipinto. Quadro molto noto, che ha avuto una certa fama e che non tornava in Italia da molti anni, l’abbiamo proposto come questione aperta circa l’autenticità autografa”. “Nel 1991 – prosegue – il professore Pietro Marani lo attribuì a Leonardo, ma nel tempo si è capito che in realtà l’intervento di Leonardo è relativo alla parte cognitiva, al modello generale, perché il dipinto è opera di un allievo, pensiamo di Boltraffio, uno dei più capaci. Non è un autografo dunque, ma è leonardesco nell’apparato ideativo”. Ma anche quella nota come la “seconda versione” della “Vergine delle rocce”, custodita a Londra, non è interamente di Leonardo, perché interpolata dai fratelli De Predis, mentre del tutto autentica è la “prima versione” che si conserva al Louvre e della quale la Cheramy è una copia quasi fedele. La differenza tra le due versioni è data essenzialmente dalla revoca dell’angelo “londinese” che al piccolo Giovanni Battista indica col dito il Bambino Gesù e da alcuni dettagli nella vegetazione. La Cheramy è considerata una terza versione, ma in realtà fu composta dopo quella parigina e prima di quella londinese, a stare a documenti storici che davano in circolazione una tavola di tale genere. “Ci sono delle differenze tra la Cheramy e la ‘seconda versione’ – dice all’Agi Barbatelli – riscontrabili in un diverso brano: più cupo nella prima rispetto all’altra, che tradisce una cattiva distribuzione della luce giacché tutti gli elementi sembrano illuminati da ogni parte. Leonardo sapeva fin troppo bene che luci e ombre hanno un ruolo fondamentale nell’illuminazione scenica e volle la tavola Cheramy sottesa a una progressione ottica che vagheggiasse molte ombre per modo che fossero poco illuminate molte parti di vegetazione”. Che la “Cheramy” non sia opera di Leonardo se non marginale nulla toglie tuttavia alla sua importanza artistica e storica.
Esposta già a Palazzo Reale a Milano e al Vaticano, ha avuto alla fine degli anni Ottanta un restauro per mano della famosa restauratrice Pinin Brambilla Barcilon mentre a Milano era impegnata nel rialbeggiamento del “Cenacolo” e vi mise mano in alternanza proprio nello stesso refettorio della chiesa di Santa Maria delle Grazie. In quella occasione si ebbe prova, dichiarata anche dall’esperto leonardista Carlo Pedretti, del valore dell’opera, che però a distanza di oltre trent’anni richiederebbe oggi almeno un intervento di ripulitura. “L’interesse storico – spiega Barbatelli – è dovuto alla possibilità di conoscere quale rapporto di gomito Leonardo avesse con i suoi allievi e come mettesse mani ai progetti. Per le tante commissioni che riceveva, Leonardo era noto come un maestro che dava l’incipit e poi lasciava proseguire la bottega. Ecco, è molto probabile che la ‘Vergine Cheramy’ seguì questa prassi”.
La mostra sta avendo significativo successo. Dice all’AGI il direttore del Parco archeologico Roberto Sciarratta: “Contiamo di conseguire i risultati di affluenza ottenuti nel 2019 e magari di superarli: ciò nel proposito che ci siamo dati, in vista dell’anno di Agrigento capitale della cultura, di invitare grandi artisti che valorizzino la Valle dei templi piuttosto di artisti poco conosciuti che dalla Valle siano favoriti nella loro carriera”. (AGI)
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