AGI – Putin ordina un intervento militare in Ucraina e i mercati vanno in tilt. Il prezzo del Brent schizza sopra 100 dollari al barile per la prima volta da oltre sette anni e in Asia, dove ieri i listini cinesi avevano chiuso in rialzo, le Borse sono di nuovo in rosso, con Tokyo in calo dell’1,81% e Hong Kong giù del 3,2% (il tecnologico perde oltre il 5%).
Anche i future a Wall Street precipitano di circa il 2%, dopo che ieri lo S&P, persi per strada i guadagni iniziali, aveva chiuso in calo di quasi il 2%, entrando ancora di più in fase di correzione, cioè lasciando sul terreno il 18% dall’ultimo picco di novembre. Il Dow Jones e il Nasdaq a loro volta avevano terminato la corsa ai minimi dell’anno.
“I mercati ci stanno dicendo che ora la Russia farà quello che vuole, data la debolezza delle sanzioni”, commenta Ray Attrill, capo stratega della National Australia Bank,secondo cui “la vera preoccupazione è che adesso l’Europa sia tagliata fuori dal gas russo”. I future sull’EuroStoxx perdono anch’essi circa il 3%, dopo che ieri, per la seconda sessione consecutiva, le Borse europee, pur restando in rialzo per oltre metà giornata, avevano ceduto nel finale. La Borsa di Mosca è stata sospesa.
Intanto salgono alle stelle i prezzi di grano, mais e soia, mentre gli investitori abbandonano gli asset più rischiosi e si rivolgono a quelli più sicuri: l’euro scende ai minimi da tre settimane sul dollaro, considerato un bene rifugio, il rublo, ai minimi storici, perde oltre il 6,5% e l’oro sale ai massimi da giugno a 1.914 dollari l’oncia.
Da inizio anno la bussola dei mercati vistosamente cambiata
La bussola dei mercati, dall’inizio dell’anno, è vistosamente cambiata. E non in meglio: dove c’era la pace ora c’è la guerra, dove c’era la crescita c’è l’inflazione e dove c’erano gli stimoli ora ci sono le strette sui tassi.
È naturale che il clima generale non sia buono: ai mercati non piaceva convivere coi tassi in rialzo, figuriamoci con la guerra. In ogni modo, l’Europa ha da perdere più degli Stati Uniti da questo clima, soprattutto a causa del prezzo del gas russo, che è in netto rialzo e che copre circa il 40% del suo fabbisogno energetico, mentre gli Usa, non solo non ne hanno bisogno, ma possono anzi beneficiare del rialzo dei prezzi, esportando più vantaggiosamente il loro gas.
E lo stesso discorso vale anche per il petrolio. Altro problema: l’inflazione. Non c’è dubbio che la crisi ucraina abbia effetti inflazionistici. I prezzi al consumo negli Usa a gennaio sono già cresciuti del 7,5% e secondo gli esperti, invece di calare, come ci si aspettava, potrebbero lievitare fino al 10% entro la fine dell’anno.
Con il rischio che la Fed, che in questa fase è tutta concentrata nella lotta all’inflazione, prema troppo sull’acceleratore dei tassi, azzerando la curva dei rendimenti e provocando così un pericolo di recessione. L’altro rischio è che l’allarme inflazione contagi anche la Bce, che finora si è mantenuta molto più tiepida della Fed sui rialzi dei tassi.
L’inflazione Ue è salita del 5,1% a gennaio, oggi pil Usa
Oggi escono i dati sul Pil Usa, che nel quarto trimestre dovrebbe crescere al tasso annualizzato del 7%, leggermente al di sopra del +6,9% della prima lettura. Il dato è molto al di sopra del +2,3% del terzo trimestre, del +6,7% del secondo trimestre e del +6,3% dei primi tre mesi dell’anno.
Ieri sono usciti i dati di Eurostat sull’inflazione nell’Eurozona, che a gennaio è salita al 5,1% annuale dal 5% di dicembre e dallo 0,9% del gennaio 2021. Nell’Ue il mese scorso l’inflazione è salita al 5,6% rispetto al 5,3% di dicembre e all’1,2% del gennaio 2021. A fare da traino sono stati soprattutto i prezzi dell’energia.
Anche in Italia l’inflazione a gennaio è balzata dal 3,9% al 4,8% su base annuale, il top dall’aprile del 1996, con i prezzi dell’energia che hanno accelerato dal +29% al +38,6%, e quelli della componente regolamentata, che includono l’energia elettrica, il gas per usi domestici e il gas da riscaldamento, schizzati da +41,9% a +94,6%. Su livelli elevati anche la crescita dell’inflazione in Spagna, che avanza del 6,1% annuo a gennaio, dopo il +6,5% del mese precedente. Più contenuta invece l’inflazione in Francia che si attesta al 2,9% a gennaio dal 2,8% di dicembre.
La settimana scorsa il capo economista della Bce, Philip Lane ha lasciato intendere che le condizioni per aumentare i tassi europei a fine anno ci sono, perché a marzo l’inflazione dovrebbe attestarsi intorno al 2%, non solo quest’anno ma per i prossimi tre anni, il che rappresenta la condizione preliminare per avviare una stretta dei tassi europei. Ovviamente occorre aspettare i dati ufficiali di marzo, ma Lane, che non è un ‘falco’, ha detto che si sta andando in quella direzione.
La Fed punta su atterraggio morbido, oggi Mester e Bostic
C’è attesa sui mercati per il modo in cui le banche centrali, a partire dalla Fed, affronteranno l’inflazione. Oggi parleranno due esponenti delle Fed, Loretta Mester e Raphael Bostic. La banca centrale Usa ha già lasciato intendere che, a partire da marzo, rialzerà i tassi e ridurrà la liquidità.
Questo i mercati ormai lo danno per scontato, ma come lo farà? I mercati scontano almeno sei-sette rialzi dei tassi di qui a fine anno, per un totale di circa l’1,75%. Inoltre, in vista della riunione Fed del 16 marzo, due terzi degli analisti ritengono che l’istituto aumenterà i tassi di un quarto di punto e solo un terzo si aspetta che li aumenterà di mezzo punto percentuale, il che è molto meno rispetto all’80% di metà febbraio.
In altre parole, la Fed sta scegliendo di utilizzare un approccio più bilanciato tra manovra sui tassi e manovra sul bilancio. Il motivo? La banca centrale Usa ha capito che se rialza troppo i tassi e lo fa troppo in fretta, finirà per spaventare i mercati e per azzerare la curva dei rendimenti, cioè rischia di far salire i tassi a breve più di quelli a lunga scadenza, il che per i mercati rappresenterebbe un segnale di recessione. In altre parole, la Fed non ridurrà l’inflazione a scapito della crescita dell’economia.
Per farlo però deve agire gradualmente: puntare su un atterraggio morbido. In che modo? La risposta è un po’ tecnica ma sostanzialmente suona così: abbassiamo i tassi, ma non troppo, e subito dopo attuiamo la riduzione del bilancio, velocizzandola, cioè vendendo pochi titoli del debito pubblico e più titoli legati ai mutui. In tal modo la Fed potrà combattere l’inflazione senza azzerare la curva dei rendimenti e senza spaventare troppo i mercati, abituandoli a convivere con meno liquidità.
Source: agi