La vicenda della scarcerazione del generale libico Almasri, accusato di torture dalla Corte penale internazionale, viene letta dal mondo delle ong e dei giuristi che si occupano di diritto internazionale e diritti umani come un punto di svolta, talvolta quasi di non ritorno, nel rapporto tra Roma e le istituzioni internazionali e nella tutela dei migranti che giungono in Europa. “Si chiude una fase storica, con i diritti umani così come li abbiamo conosciuti; si apre un terreno nuovo di conquista in cui dobbiamo combattere e organizzarci: non si può pensare che qualcuno ci ridarà indietro quello che è antico ed è andato”, ha detto Luca Casarini, fondatore della ong Mediterranea Saving Humans, nel corso di un evento che a Palermo ha celebrato i 10 anni di Alarm Phone, il centro di monitoraggio dei passaggi dei migranti diretti verso l’Europa, e annunciato l’avvio di una nuova missione nel Mediterraneo. “È il caso di Almasri – ha aggiunto – ma anche della foto della Casa bianca con persone incatenate e deportate. Oggi ha ripreso a funzionare la deportazione dell’Italia verso l’Albania, per cui chi andrà in mare ha anche il problema di capire come fare a interrompere il meccanismo della deportazione. Come succede negli Stati Uniti bisogna cominciare a organizzarci per evitare le retate, ci saranno retate di persone che verranno prese e incarcerate nei Cpr: dobbiamo entrare in un’altra logica, quella dell’auto organizzazione di una forma di vita differente nelle città. La vicenda Almasri dimostra che non vengono rispettate neanche le disposizioni della Corte penale internazionale”. “Avete visto – ha continuato – cosa accade negli Stati Uniti, dove le chiese nascondono le persone dalle retate? Dobbiamo entrare in questa logica, non si pò solo indignarsi ma anche organizzarsi.Il soccorso è diventato un reato, un terreno di conflitto, lo statuto dei diritti umani è un terreno di conflitto, non è più scontato”.
Il mondo del diritto sottolinea, dal canto suo, le “contraddizioni” sia nei provvedimenti della Corte d’Appello di Ronma sia in quelli del governo. Su Sidiblog il blog della Società italiana di diritto internazionale, Khrystyna Gavrysh, dell’Università degli Studi di Ferrara, scrive che “la richiesta di consegna di Osama Elmasry Njeem ha rappresentato la prima significativa verifica della cooperazione dell’Italia con la Cpi”, ma “il risultato combinato della condotta di entrambi i ministri (il Guardasigilli Carlo Nordio e il titolare del Viminale Matteo Piantedosi, ndr) e della avventata decisione della Corte d’appello di Roma, rende lo Stato italiano inadempiente innanzi agli obblighi di cooperazione previsti dallo Statuto della Cpi. La mancata cooperazione con la Corte può essere contestata allo Stato parte inadempiente ai sensi dell’art. 87, par. 7, dello Statuto”. “A prescindere dall’ipotesi alquanto remota che il Consiglio di sicurezza si pronunci sulla violazione dell’obbligo di cooperazione da parte della Repubblica italiana – prosegue la ricercatrice di Diritto internazionale – la Corte si è già attivata, ai sensi dell’art. 109, par. 3 del Regolamento, di “hear from the requested State”, per capire se vi siano ragioni fondate a giustificare la mancata cooperazione con la stessa. Sarà interessante vedere quali saranno effettivamente le argomentazioni che lo Stato italiano addurrà per spiegare una condotta dei suoi organi così palesemente contraria a obblighi internazionali”. “Nè il ministro Nordio, nè tantomeno altri ministri, o la presidente del Consiglio – sottolinea a sua volta il giurista Fulvio Vassallo Paleologo, esperto di Diritto d’asilo – hanno consultato la Corte dell’Aja, prima di procedere al rimpatrio immediato di Almasri. Se non si fosse proceduto con tanta rapidità all’espulsione con un volo di Stato, e se si fosse interloquito con la Cpi, forse sarebbe stato possibile garantire la sanzione di reati gravissimi e di crimini contro l’umanità che adesso potrebbero restare impuniti”. Quanto alla “pericolosità sociale” del generale Almasri, per Vassallo “non c’entra evidentemente nulla con il suo rimpatrio più ‘assistito’ che ‘forzato’, a Tripoli. Quale ‘pericolo per l’ordine pubblico’ o per la ‘sicurezza dello Stato’, sarebbe potuto provenire da una persona detenuta in un carcere italiano sotto mandato di arresto della Corte Penale internazionale? A meno che non si ritenga che ‘l’ordine pubblico’ o la ‘sicurezza dello Stato’ dipendano dai poteri di ricatto che i miliziani dalla Rada, collegati al governo ‘amico’ Dbeibah, esercitano sugli interessi (e probabilmente anche sui cittadini) italiani in Libia”.
Tornando alle ong, sembrano volersi riorganizzare dopo la sentenza che ha mandato assolto Matteo Salvini per il caso Open Arms. “È stata una mazzata – ha ammesso, nel corso dell’evento di Alarm Phone, Alessandra Sciurba, professoressa associata in filosofia del diritto presso il Dipartimento di giurisprudenza dell’Università di Palermo – dobbiamo leggere le argomentazioni, che temo tireranno in ballo Open Arms. Sono molto preoccupata da questa sentenza e dall’impatto che avrà sul soccorso in mare: il panorama in pochissimo tempo si è completamente ribaltato”. A febbraio, intanto, torna in mare la barca a vela di Arci, la missione di monitoraggio nel Mediterraneo centrale. Il progetto – che prende il nome di “Tutti gli occhi sul Mediterraneo” – è stato sviluppato insieme al circolo navigante Sailingfor Blue LAB e nasce con l’obiettivo di monitorare ciò che accade lungo le rotte “invisibili” dei migranti lavorando a fianco delle organizzazioni di soccorso. Si tratta della seconda missione in mare, dopo la prima flotta civile Arci che ha preso il via lo scorso novembre, come spiega Francesco Delli Santi, il presidente del circolo Sailingfor Blue LAB. “Partiremo da Trapani tra circa due settimane con una barca di 17 metri e a bordo un equipaggio di una decina di persone – spiega -. Il nostro obiettivo è stabilizzare le situazioni di criticità che potremmo incontrare in mare, evitando che possano precipitare, nell’attesa dei soccorsi. Ma come marinai non possiamo restare indifferenti e voltarci dall’altra parte: salvare le persone in difficoltà non è un opzione ma un obbligo”. Come in effetti è già accaduto durante la prima missione che si è conclusa con il salvataggio di 43 persone: si trovavano alla deriva a bordo di un’imbarcazione di legno di sette metri partita dalle coste libiche e in mare da circa ventisei ore. “Il tempo stava peggiorando – ricorda Delli Santi – e non abbiamo esitato a mettere in salvo i migranti, tra cui tre donne e un bambino di 7 anni, che abbiamo fatto a sbarcare a Lampedusa. Vogliamo essere presenti per testimoniare quello che sta accadendo, una situazione preoccupante destinata ad aggravarsi”. Un modo per “risvegliare le coscienze di chi va per mare” e di non riservare questa attività a solo alle Ong”.
Il tema è “duplice” perché oltre a monitorare e documentare il lavoro delle organizzazioni di soccorso attive in mare, l’Arci vuole coinvolgere sempre più la società civile: “Con leggi incomprensibili, l’Europa sembra sostanzialmente determinata ad avere una parte incomprensibile in questa tragedia – prosegue – malgrado si tratti di persone che rischiano la propria vita per fuggire dalla Libia. In queste settimane abbiamo ricevuto tantissime manifestazioni di disponibilità e ci auguriamo che le persone che fanno parte della società civile possono unirsi, anche con propri mezzi, a questa campagna di sensibilizzazione verso una tragedia silenziosa che si sta consumando in mare. Noi – conclude – possiamo fare da cassa di risonanza”. (AGI)
PA3/FAB
Migranti: ong, “Anche in Italia organizzarsi contro retate”
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