Le condizioni meteomarine in questi giorni “erano pessime e tutte le autorità coinvolte, a conoscenza della posizione dell’imbarcazione in pericolo avrebbero dovuto attivare una operazione di ricerca e soccorso, anche avvalendosi della nave della Ong presente in zona, indipendentemente dalla zona nella quale si trovava il barcone in difficoltà”: giurista e docente di diritto d’asilo a Palermo, Fulvio Vassallo Paleologo spiega dove andrebbero cercate le responsabilità del naufragio al largo della Libia di un gommone con 86 migranti, dei quali almeno 61 dispersi.
“Questi naufragi – scrive in un commento sul sito dell’Associazione diritti e frontiere (Adif) – non sono dovuti soltanto al maltempo, ma chiamano in causa la responsabilità di chi chiude tutte le vie di ingresso legale, stipula accordi con autorità che non garantiscono una vera attività di ricerca e salvataggio, e tantomeno porti sicuri, ed allontana le navi del soccorso civile imponendo porti di sbarco sempre più lontani. A differenza del naufragio di Steccato di Cutro non sarà facile provare la giurisdizione italiana: gli accordi stipulati con i libici servono proprio a scaricare tutte le responsabilità dei respingimenti collettivi e dei naufragi sulla sedicente Guardia costiera libica, ma la Centrale di coordinamento italiana, come quella maltese, agisce da tempo in stretto collegamento con le autorità di Tripoli e Frontex e non può nascondere la sua collaborazione con i libici nelle attività di tracciamento delle imbarcazioni che attraversano il Mediterraneo centrale”.
Il naufragio, prosegue Vassallo, svela “la finzione della zona Sar (ricerca e salvataggio) ‘libica’ impropriamente riconosciuta dall Imo (Organizzazione marittima internazionale) alle autorità libiche che fanno capo al governo di Tripoli, contraddetta anche dal crescente ruolo della Turchia nel controllo dei porti libici, e dalla divisione ancora non risolta tra la Tripolitania, controllata dal governo provvisorio di Dbeiba riconosciuto dalla comunità internazionale e la Cirenaica divisa tra il generale Haftar e il Parlamento di Tobruk; comunque priva di una centrale unica di coordinamento dei soccorsi, che sarebbe la condizione primaria per il riconoscimento internazionale di una zona SAR (ricerca e salvataggio)”. “E’ del resto noto – sottlinea Vassallo – che quella zona non viene utilizzata per attività di soccorso, finalizzata allo sbarco in un porto sicuro, ma per operare intercettazioni in acque internazionali e respingimenti collettivi, grazie anche al tracciamento aereo garantito da Frontex, in costante comunicazione con la sedicente Guardia costiera libica. Attività che contrastano con gli obblighi di ricerca e salvataggio imposti agli Stati costieri ed a Frontex dalle Convenzioni internazionali e dai Regolamenti europei”. (AGI)