Mi chiamavano “malerba” in prigione ho scoperto la mia luce


È necessario ridurre l’isolamento di noi detenuti e il senso di estraneità e repulsione della società, accorciare l’estraneità reciproca

Giuseppe Grassonelli

Prendo le mosse da un articolo di Tullio Padovani, “Il carcere va abolito, ecco perché”, uscito su l’Unità il 5 luglio 2023 e che è anche riportato in prefazione all’ultima pubblicazione di Nessuno tocchi Caino, «Pena di morte e morte per pena». «Il carcere è fatto per sputare all’esterno rifiuti, inutili, inidonei, incapaci di tutto». Questa frase, in particolare, mi ha colpito nel ricco e articolato ragionamento di Tullio Padovani, volto a farci riflettere sull’importanza di rendere il carcere meno desocializzante, come unica via possibile di uscita da questi tempi cupi. Ho provato a riflettere su come si possa colmare il divario che ci isola dalla società, cosa significhi, come portare la società dentro il carcere e il carcere fuori. Alla luce anche di un anno appena trascorso che è stato molto importante per me.
Sono stato arrestato che ero semianalfabeta, ho incontrato i libri in carcere e solo qui ho imparato una cosa che di solito si impara nel percorso scolastico. Io in carcere ho imparato – pensate un po’ – che ogni essere umano custodisce in sé il bene e il male. Questa cosa, quando gli studenti la apprendono, ci restano male, si sentono mortificati, provano pudore e vergogna a sapere di avere dentro pure il brutto, l’ombra, il buio. Provano repulsione per questa parte di sé, si schifano, si voltano dall’altra parte, convinti di essere assolutamente buoni.
Per me, invece, è stato proprio l’inverso, perché quando sono arrivato in carcere ero convinto di custodire in me solo il male, di essere un uomo mal riuscito, “malerba” mi chiamavano e ho detto tutto. Pensavo d’essere un errore su due gambe e senza speranza. E invece qui, in carcere, ho fatto la scoperta più rivoluzionaria della mia vita ed è stato uno dei miei momenti più belli, un tempo intimo in cui per la seconda volta io sono nato. Quel giorno mi sono saputo, ho visto che pure io avevo un corredo completo, che non solo tenevo dentro il male, ma pure il bene. Io che avevo seminato odio e morte, ho intuito di avere in me una possibilità di luce.
Tullio Padovani obietterebbe che il merito è dell’individuo, dunque mio e dei miei incontri fortunati, come ha spiegato nel suo breve saggio, e che il carcere non c’entra nulla. Io ho sperimentato questo e penso che il carcere non possa essere abolito se esso è inteso come luogo di redenzione e rinascita, come campo di crescita e di opportunità. Io sono stato condannato, so cosa significhi e per questo non condanno il carcere e vorrei che questo luogo che ha assistito alla mia rinascita potesse rinascere a sua volta come istituzione nuova, con un nome diverso, un luogo fatto di vita e di lavoro. Ritorno al fatto che dovrebbe essere meno desocializzante. È necessario ridurre l’isolamento di noi detenuti e il senso di estraneità e repulsione della società, accorciare l’estraneità reciproca. Come? Ma scusate, voi quando andate a fare una passeggiata, dopo una giornata di lavoro, che fate? Andate al cinema, visitate una mostra, andate in mezzo alla natura, state con le persone care, insomma cercate di aumentare il vostro bene, come è giusto che sia. Nessuno di voi direbbe: ora scendo e mi faccio una passeggiata a guardare cosa c’è nei cassonetti o faccio un salto a vedere la discarica! O mi sbaglio? Il mondo e la vita umana non sono un capolavoro se li guardi dall’immondizia, o no?
Qualche settimana fa ho sostenuto l’esame di Antropologia culturale, ho studiato l’antropologo e sociologo Malinowski in maniera più approfondita. Ebbene, egli paragonava la società a un organismo vivente, a un individuo. Se è vero che la società è paragonabile a un individuo, mi spingo a pensare che come lo studente che sui banchi apprende di avere dentro il male e immediatamente rifiuta questa parte di sé, così la società rifiuti questa parte di sé che è il carcere. E lo fa non tanto perché sarebbe come mettersi a guardare cosa c’è dentro una discarica, non solo perché esso raccoglie criminali, rifiuti umani, ma anche perché per la società il carcere è la prova che essa non può fare a meno di produrre malfattori come produce rifiuti, e ancor più perché qui, fra queste mura, essa agisce da criminale, perpetrando il male che dichiara di rifiutare per farsi bella. È nel carcere che la società avvera il suo buio, è qui che con i trattamenti degradanti realizza la sua indole maligna che si ostina a rifiutare.
La mia conclusione è che “spem contra spem” è da domani, anzi da subito, educare al male, accogliere la parte rifiutata e riconoscerla, per saperla curare. Racconto ogni volta che posso agli studenti che il motivo per cui ho donato la mia storia è stato di far capire che il male esiste e può coinvolgere ognuno di noi, che non bisogna mai sentirsi immuni, ma sempre avere il coraggio di affrontarsi totalmente.
* Ergastolano, intervento al X Congresso di Nessuno tocchi Caino

Fonte: L’UNITA’