Meloni, la trasformista 2.0


Aldo Torchiaro Annarita Digiorgio

La prima dozzina di domande alla premier Meloni durante la conferenza stampa hanno avuto tutte l’obiettivo di mettere sul tavolo temi pesanti, economia, bilancio, strategie industriali, recupero delle risorse. Ciascuna di loro rispondeva ad una domanda più grande: quale visione, quale progetto per il paese. Non credo ci fosse un accordo o che sia stato seguito uno schema. L’esigenza di quelle testate – La Stampa, Corriere della Sera, Riformista, Manifesto, Tg1 e altre ancora – è stata di voler capire di più e meglio su questi temi. Al tempo stesso era stata data alla premier la possibilità di spiegare, dopo quattordici mesi a palazzo Chigi e quindi con le idee molto più chiare, la sua visione di Paese. Occasione, possiamo dire, non raccolta. Quindi sprecata. Per scelta. O perché le idee non sono chiare.
Più crescita e più risorse è l’ossessione di ogni governo. Anche di Giorgia Meloni. La premier racconta di una crescita nazionale (2024) superiore alla media europea. Peccato che i dati dicano che l’Ue cresce di 1,3 mentre l’Italia è a 0,9. Non solo: la Nadef di settembre dà 1,2 mentre Bankitalia la fissa a 0.6. E’ una delle tante inesattezze di quella conferenza stampa. Il 2024 sarà l’anno in cui dovremo vedere i primi risultati, anche in termini di crescita, delle misure programmate dal Pnrr. Eppure è risuonata la domanda di sempre: cosa fare per rendere attrattivo questo paese?
C’è un dossier di cui abbiamo perso le tracce nell’ultimo anno e che prometteva molto bene: la multinazionale americana Intel aveva annunciato alla fine del 2021 (governo Draghi) un mega investimento in Europa e anche in Italia per riportare in Occidente almeno una parte della produzione di chip e microchip, elementi chiave per ogni nostra attività. Durante il Covid, chiusa la Cina, abbiamo – tutto l’Occidente – realizzato anche questo limite della vecchia globalizzazione. E siamo corsi ai ripari. Intel ha già aperto una fabbrica in Irlanda, un investimento da 7 miliardi di dollari per la produzione di un modello innovativo (Meteor Lake). Analogo investimento doveva riguardare l’Italia. Ma non ne sappiamo più nulla. Nella conferenza stampa di fine anno il ministro per il Made in Italy Adolfo Urso ha ammesso che Intel “potrebbe rivedere i suoi piani di investimento ma ci aspettiamo che altre multinazionali asiatiche e americane nel prossimo anno annuncino progetti nel nostro paese”.
Il ministro però è ottimista circa “diversi insediamenti produttivi sulla microelettronica in Italia per un ammontare ben superiore a quello già programmato”. Mettiamo in cassaforte le parole del ministro Urso. Ma intanto un anno è andato perduto. Perché? Qual è il problema italiano rispetto all’attrazione di capitali stranieri? “Il problema esiste e ci lavorerò proprio nei prossimi mesi – ha detto la premier sfoggiando una delle ormai famose faccette da emoji – di sicuro burocrazia e giustizia sono due zavorre per gli investitori. Ricordo che il motto di questo governo è sempre: non disturbare chi fa”. Il problema qui è che non si disturba ma neppure si fa.
Analogo ragionamento può essere fatto sulla concorrenza. Il governo continua a produrre disegni di legge sulla concorrenza sganciati dalla realtà e delle necessità del mercato e delle regole europee. Dalla concorrenza. Come ha scritto il Presidente della Repubblica in relazione alla legge approvata quest’anno per la parte del commercio ambulante. L’anno scorso il Quirinale aveva fatto analoghe osservazioni sui balneari. Interpellata sul punto la premier è stata vaga. “Daremo seguito alle parole del Capo dello Stato…”. La sensazione è che si voglia solo prendere tempo, una volta di più, per arrivare a giungo e quindi attendere la nuova Commissione. Un altro anno perduto. Tutto pur di non perdere quel bacino i voti. Le procedure d’infrazione intanto camminano. E con loro i soldi. Se non c’è una vera libera concorrenza come fa un privato ad essere anche interessato a mettere il naso in un mercato che non conosce? Un’altra domanda di quella prima dozzina riguardava le risorse, dove recuperarle e le privatizzazioni come strada maestra. “Ne abbiano previste per venti miliardi in tre anni” ha messo le mani avanti la premier. Quindi il piano è noto al dettaglio? “No, ancora no, il criterio è ridurre le quote in partecipate in modo da non ridurre però il controllo pubblico come avviene in Poste. Oppure far entrare i privati con quote minoritarie come in Ferrovie. Di sicuro non faremo favori ad imprenditori bene inseriti…”. In altre parole, lo Stato intende vendere ma vuole continuare a comandare, a decidere incarichi, nomine, strapuntini. Notava ieri l’economista Giavazzi sul Corriere della
Sera: “Dubito possa essere attraente l’offerta che il governo fa agli investitori di non contare nelle scelte dell’azienda in cui si chiede di investire e di accettare di scommettere sulle scelte che farà il socio di maggioranza che resta lo Stato”. Insomma, se questo è lo schema, o non si è capito cosa vuol dire privatizzare oppure non si vuole privatizzare. Eppure se non vendiamo qualcosa non abbiano i soldi per fare la prossima legge di bilancio. Perché il nuovo Patto di stabilità di cui la premier ha detto di essere “tutto sommato soddisfatta” impone regole che abbiano accettato sia sul debito che sul deficit.
La premier ha invece idee molto chiare su nomine e incarichi. L’attacco in diretta all’ex presidente della Consulta Giuliano Amato per un’intervista rilasciata giorni fa, ha sortito l’effetto sperato: Amato ha lasciato la Commissione sull’intelligenza artificiale per l’informazione. Al suo posto Padre Benanti, teologo e filosofo francescani.
Il trasformismo, materia sulla quale Giovanni Giolitti improntò la sua disciplina parlamentare, consisteva nell’assumere – da parte dei medesimi parlamentari, in assetto di maggioranza variabile – posizioni politiche diverse a seconda delle opportunità e convenienze. Se nella dottrina politica Giolitti ha il copyright sull’origine della pratica, Giorgia Meloni è medaglia d’oro nella sua interpretazione contemporanea. Un trasformismo 2.0, naturalmente. Perché senza cambiare la maggioranza, oggi è la stessa compagine – e la stessa Presidente del Consiglio – a mutare posizione, convertendosi camaleontisticamente a seconda del trend del momento. Un po’ Giolitti, un po’ influencer, Meloni va dove la porta il vento. O le situazioni, le regole, le indicazioni che quando si governa, al contrario di quando si sta all’opposizione, vanno rispettate.
Giustizia
C’è un Maradona vero e proprio, nel campo del garantismo. Si chiama Carlo Nordio, ed è un ex magistrato che ha da sempre il pallino della giustizia giusta. Un giurista dalla tempra forte e dal programma deciso, che non ha mai nascosto di voler fare sul serio. Giorgia Meloni lo vuole in squadra, lo blandisce, infine lo convince ad accettare l’incarico di riformare il sistema giudiziario italiano, più volte richiamato e perfino sanzionato dall’Europa per le sue iniquità, dallo strapotere dei magistrati alla gogna mediatica, dagli errori giudiziari impuniti alle condizioni disumane delle carceri, dai tempi inaccettabilmente lunghi dei processi all’autoreferenzialità del Csm. Nell’ottobre 2022 Meloni lancia il programma del suo governo: «Garantisti fino alla condanna definitiva. Vogliamo intervenire con decisione per cambiare l’ordinamento giudiziario». Ecco, la Giorgia Meloni del 2024 appare molto meno decisa. Carlo Nordio, che doveva fare il capocannoniere del Governo, è finito in panchina. Delle sue riforme è rimasta l’ombra. Qualche intervista, qualche intendimento. Il Csm rimane intangibile, l’Anm protesta a ogni pié sospinto, ricacciando le promesse elettorali nel vuoto. Nella conferenza stampa di inizio anno Meloni ne parla a malapena e controvoglia: «Certo, siamo contrari ad ogni ipotesi di amnistia. Le celle sono sovraffollate? Vanno costruiti più istituti di pena». E sull’emendamento anti-gogna voluto da Enrico Costa, manca poco alla presa di distanze: «È stata una iniziativa delle opposizioni». Quanto poi al rafforzamento degli uffici giudiziari, «priorità del nostro Governo», diceva nella conferenza stampa che ha fatto seguito al Consiglio dei Ministri del 31 ottobre 2022, oggi si apprende che i primi 50 posti messi a bando per la Procura di Milano sono andati a vuoto. I 1500 euro al mese per il superlavoro degli addetti agli uffici del processo non hanno attirato nessuno. La garantista Meloni, d’altro canto, è la stessa che ogni mese chiedeva le dimissioni di questo o quel ministro nei governi dei quali era all’opposizione. Lì per una polemica, là per un avviso di garanzia. Rimane memorabile l’intemerata per pretendere il passo indietro della ministra Federica Guidi, appena attinta da una inchiesta finita con un nulla di fatto. Al tempo Meloni non aveva ancora aperto il vocabolario alla voce Garantismo.
Migranti
Tra il dire e il fare, c’è di mezzo il mare. Ce lo ricorda la rete – non quella dei pescatori, quella del web, che pesca anch’essa – quando impietosamente riporta alla luce i tanti video con i discorsi di Giorgia Meloni del 2019, 2020, 2021, 2022… «La proposta più seria per fermare i migranti si chiama Blocco Navale. E la abbiamo sempre fatta noi!», si sente Meloni urlare ora da un palco, ora dal suo scranno in Parlamento. Poi arrivano le elezioni vinte da Fratelli d’Italia («Pronti!», ricordate?) e quella stessa Giorgia Meloni china il capo davanti alla realtà. Al bagno di realtà che purtroppo coincide anche con quei tanti migranti morti in mare, qualcuno proprio davanti alle coste italiane, come a Cutro. «Il momento più difficile dell’anno passato», ammette Meloni, improvvisamente mesta, in conferenza stampa. Come la pensa oggi, avendo a disposizione la più ampia maggioranza e dalla sua il ministro della Difesa, di quel Blocco Navale che era tanto semplice, così immediato nelle sue parole? «Le migrazioni? Ci confrontiamo con sfide epocali. E chiaramente si possono fare diverse iniziative che ti danno un consenso immediato ma non risolvono niente sulla media distanza». Giorgia Meloni del 2024 smentisce, sbugiarda e capovolge la Giorgia Meloni del 2022. I dati e le cifre d’altronde non affondano con le onde: gli sbarchi in Italia sono praticamente raddoppiati nel corso del primo anno del Governo Meloni.
Nato e Putin
Sulla postura internazionale dell’Italia Giorgia Meloni ha detto tutto e il contrario di tutto. «Dobbiamo tenere fede agli impegni al fianco dell’Alleanza Atltantica, a sostegno dell’Ucraina aggredita dalla Russia di Putin», ha scandito nel discorso di insediamento pronunciato a Montecitorio dopo il suo giuramento. A qualche metro di distanza, i banchi di Fratelli d’Italia, nell’emiciclo, ascoltano in silenzio. Se quegli scranni potessero parlare, riavvolgendo il nastro, farebbero udire la stessa voce di Meloni, deputata del gruppo Fdi-Alleanza Nazionale che l’1 ottobre 2014 (dopo che Putin aveva annesso militarmente la Crimea, primo atto dell’occupazione ucraina) si sbracciava per gridare: «Abbiamo depositato una mozione perché il governo affronta la questione dei nostri rapporti con la Russia con leggerezza. La questione delle sanzioni alla Russia e delle conseguenti controsanzioni russe contro di noi è gravissima. Questa scelta peserà sulla nostra economia». E poi, non contenta, spiegava che la dipendenza dalla Russia andava preservata per diverse ragioni: «Non è solo questione di amicizia e commercio. Cosa accadrebbe un domani se la Russia decidesse di interrompere le forniture di gas all’Italia? Vogliamo rischiare questo per una politica estera europea? A me sembra che stiamo solo eseguendo gli ordini degli americani, proprio nel momento in cui avremmo più bisogno dell’aiuto della Federazione Russa anche per combattere il fondamentalismo islamico». E infine una perla: «Avremmo bisogno di promuovere il ruolo dell’Ucraina fuori dalla Nato. L’argomento della difesa dell’Ucraina non ci convince, faccio notare che in molte altre occasioni l’Occidente è rimasto a guardare». Quell’ambasciata per la Russia che iniziava ad aggredire Kiev non è rimasta isolata. Il libro «Io sono Giorgia», uscito con Rizzoli nel maggio 2021, due anni e mezzo fa, la inchioda a una smaccata ammirazione per Putin: «Incarna i valori della sovranità nazionale e della Cristianità», lo elogiava Meloni. «Rimettiamoci la maglia, i tempi stanno per cambiare», deve aver pensato con le parole di Franco Battiato quando ha vinto le elezioni. Ed eccola l’altro ieri al telefono con Zelensky, assicurargli lealtà sulla linea dura anti-Putin.
Economia
Meloni aveva promesso crescita e investimenti. L’Italia di oggi però non cresce. A giugno, rispetto all’anno precedente, la produzione industriale dell’Italia è calata dello 0,8 per cento (e nella media del secondo trimestre il livello è calato dell’1,2 per cento rispetto ai tre mesi precedenti). Eppure Giorgia Meloni parla di orgoglio degli italiani. Fa addirittura il Ministero del Made in Italy. Peccato che la manifattura italiana prosegua il suo declino. Stellantis ormai produce in Francia il doppio delle auto italiane, e andrà a fare la nuova Panda in Serbia e la 600 in Polonia. Di fronte a questa agonia, la soluzione sbandierata è stato un miliardo di incentivi che, come ha detto platealmente, servirà ad aumentare le auto prodotte in Italia. Peccato che se lo legge l’Europa lo impugna per aiuti di Stato. Dall’altra parte rispetto all’inflazione che diminuisce grazie ai tassi della Bce, criticati da Meloni, Urso ha il coraggio di dire che è merito del carrello tricolore.
Crisi Industriali
Giorgia Meloni si era candidata promettendo che avrebbe bloccato la vendita di
Alitalia che doveva restare italiana. Addirittura da leader dell’opposizione aveva scritto una lettera a Mario Draghi chiedendogli di bloccare l’operazione. Il governo Meloni non solo sta vendendo Alitalia a Lufthansa, ma il premier in persona ha anche accusato l’Europa di rallentare questa operazione. Anche in questo caso senza aver mai ammesso «ci eravamo sbagliati». E poi c’è Ilva. Nel messaggio di inizio anno del 2023 Giorgia Meloni aveva promesso che avrebbero fatto ritornare lo stabilimento di Taranto la più grande acciaieria d’Europa. È passato un anno invano e la fabbrica si sta spegnendo tra crisi industriale, finanziaria e societaria con il governo che una settimana fa ha detto ai sindacati «non abbiamo letto le carte». Se Conte voleva essere quello che ha abolito la povertà, Meloni sarà quella che ha abolito la ricchezza. Scherziamo ovviamente. E se ci sono state misure fiscali, fatte a debito, per accontentare i più disagiati, certamente è la classe media a stare peggio. Ma che non ha visto una riduzione delle tasse, con un governo che va persino ad aumentarle sulla casa. Ha abolito il reddito di cittadinanza, «metadone di stato», ma dall’altra parte Meloni continua a firmare cassa integrazione straordinaria per aziende decotte, o per i portuali, con il bluff di reindustrializzazioni che non ci saranno mai.
Lobby e Corporazioni
Giorgia Meloni dice di non piegarsi ai ricatti delle lobby. E invece proprio lei difende gli interessi di corporazioni che bloccano il Paese a svantaggio della collettività. Tassisti, balneari, banche: con la scusa di non fermare chi fa, ne tutela i privilegi a danno della libera concorrenza e quindi dei consumatori. Non ci aspettavamo Margaret Thatcher, ma neanche un Fidel Castro col caschetto.
Cultura e Istruzione
Qui il governo è totalmente latitante. Nella convinzione che sarebbe bastato sostituire il pantheon dall’egemonia gramsciana a Tolkien, tra i ministeri di Cultura, Istruzione e Università l’unica riforma che finora hanno prodotto è il corso di studi sul Made In Italy. Insegneranno agli studenti a chiedere di andare in bagno, come Giorgia Meloni in conferenza stampa.
lproblema della comunicazione è serio. Ed è anche grave, visto che perfino nel monolite di Fratelli d’Italia, seppur sottotraccia, emergono i primi dubbi sull’operato del sottosegretario Giovanbattista Fazzolari come nuovo stratega mediatico della premier Giorgia Meloni. C’è chi scherza, tra i Fratelli d’Italia. Non mancano le battute sull’efficacia delle soluzioni proposte da quello che doveva essere il Mister Wolf di Palazzo Chigi. Quando lo spin doctor era Mario Sechi, il cerchio magico meloniano aveva un comodo capro espiatorio su cui addossare tutte le colpe dei fallimenti comunicativi. Negli ambienti vicini alla premier pensavano che sarebbe bastato sostituire una pedina per cambiare lo stile di gioco. D’altronde, come sosteneva la stessa Meloni, “Fazzolari è la persona più intelligente che abbia mai conosciuto”. Eppure la comunicazione della presidenza del Consiglio e di FdI sembra ancora costellata di imprecisioni e gaffe. È stata Meloni, ad agosto scorso, ad affidare a “Fazzo” la supervisione politica della strategia comunicativa di governo e partito. Ma le prime avvisaglie di un caos che non accennava a placarsi si erano manifestate già a ottobre, quando, dopo sole due settimane di lavoro, la giornalista Federica Frangi ha deciso di abbandonare l’incarico di coach televisivo dei parlamentari di FdI. Troppe rivalità che scorrono sotto l’apparente compattezza di Via della Scrofa. Tanti malumori perché “in tv ci vanno sempre gli stessi”. Meglio lasciare, prima di impantanarsi in una palude. Ma le perplessità interne sul lavoro di Fazzolari sono cresciute proprio negli ultimi giorni. A fare da detonatore è stato il caso del deputato di FdI Emanuele Pozzolo. Il parlamentare “pistolero” che si è presentato armato alla festa di Capodanno organizzata dal sottosegretario Andrea Delmastro in un paesino del biellese. In questa circostanza si è vista tutta la schizofrenia della trama mediatica tessuta da Palazzo Chigi. Surreale la linea impostata in prima battuta dai dioscuri di Meloni, in pole position Fazzolari. “È solo un fatto di cronaca, non politico”, recitavano i primi dispacci provenienti dal quartier generale meloniano. Argomentazioni fragili, di cristallo. Che si sono infrante man mano che la polemica si surriscaldava sempre di più. Tra richieste di dimissioni e pressing sulla presidente del Consiglio. E infatti la linea viene smentita plasticamente, anche se con ritardo, dalla premier durante la conferenza stampa di giovedì. La domanda su Pozzolo è inevitabile. Quando arriva, Meloni non può più nascondersi. Dunque annuncia la sospensione dal partito dello spericolato parlamentare vercellese. Con tanto di rimbrotto ai poco accorti Fratelli d’Italia: “Non sono disponibile a fare questa vita, con la responsabilità che ho sulle spalle, se quelli attorno a me non capiscono questa responsabilità”. Altro che semplice episodio di cronaca. La legittimazione politica dell’incidente di San Silvestro la conferisce Meloni in persona. Con tre giorni di ritardo. Nonostante ciò, la presidente del Consiglio contifacile, nua a fidarsi del suo presunto Mr. Wolf. Ma in Fratelli d’Italia più di qualcuno esprime dubbi sul nuovo corso della comunicazione meloniana, che somiglia troppo a quella vecchia.
Il chiacchiericcio intorno a “Fazzo” non è affatto casuale. Si intensifica dopo una doppietta. La gestione allegra del caso Pozzolo, infatti, è stata preceduta dalla défaillance sul Mes. Una fuga in avanti che è costata a Meloni il giurì d’onore chiesto da Giuseppe Conte a ritmo di fanfara. Troppo per l’avvocato di Volturara Appula, approfittare della distrazione sul presunto “fax”, in realtà una email, sventolato da Meloni in Aula per sostenere che Conte avrebbe approvato le modifiche al Fondo Salva-Stati senza passare per il Parlamento. Semplice, come dicevamo, per il leader del M5s smentire e rilanciare, ricordando che quella decisione è stata approvata con un voto parlamentare. Anche qui, secondo le malelingue, c’entrerebbe Fazzolari. Pure alcuni parlamentari sono insoddisfatti dalle “linee guida” dettate dal sottosegretario, fedelissimo di Meloni. In effetti la premier avrebbe potuto prevedere questi scivoloni. Fazzolari è lo stesso che nelle prime battute della legislatura, parlando con Il Foglio, aveva messo in imbarazzo il governo con gli Stati Uniti, sostenendo che “l’omino della Cia non aveva altri interlocutori affidabili” in maggioranza eccetto Meloni. Cambiano le pedine, ma la comunicazione continua a non funzionare.

Fonte: Il Riformista