Massimiliano Kolbe: un uomo per un altro uomo


 

 

Un frate del Santo ha raccolto la straordinaria testimonianza di Francesco Gajowniczek, il padre di famiglia salvato da san Massimiliano Kolbe ad Auschwitz. «Contro il regolamento, mi salvò la vita».

 

Pace e bene cari amici in ricerca e in ascolto della vocazione divina per la vostra vita.

In questo mese ricordiamo il martirio di un nostro frate, fra Massimiliano Kolbe, che morì il 14 agosto del 1941 ad Auschwitz dopo essersi offerto di prendere il posto di un altro prigioniero, Francesco Gajowniczek, già destinato al «bunker della fame» dal comandante del campo di concentramento.
Una tremenda e tragica scelta, ma coerente con ciò che da sempre aveva creduto e annunciato. Dopo due settimane di indicibili sofferenze, nel porgere il braccio per l’iniezione mortale di acido fenico, fra Massimiliano serenamente dice: «Ave, Maria!». È la vigilia dell’Assunta ed ha 47 anni.
Terminata la guerra, il padre di famiglia scampato alla morte più volte racconterà quegli eventi insieme all’incredibile gesto di fede operato da p. Kolbe. Nel 1981 Gajowniczek si trova a Mestre per una testimonianza che un frate della Basilica del Santo – fra Francesco Ruffato – raccoglie. Ve la propongo di seguito con l’invito a lasciarvi guidare nella vostra vita cristiana e nelle vostre scelte, dall’esempio forte e mite nello stesso tempo, di san Massimiliano Maria Kolbe, frate minore conventuale.

Al Signore Gesù e alla Vergine Immacolata sempre la nostra Lode.

 

(Un uomo: Massimiliano Kolbe, per un altro uomo: Francesco Gajowniczek).

Due parole in latino. Sono scritte su un bassorilievo in latta, appeso all’ingresso del Blocco della morte, ad Auschwitz, per ricordare il volontario sacrificio di Massimiliano Kolbe (14 agosto 1941), polacco, francescano minore conventuale, confratello dei frati del Santo, per salvare dalla morte un padre di famiglia: Francesco Gajowniczek (+ 1995) . Ho accolto la sua diretta testimonianza dei fatti a Mestre, nell’ottobre 1981, quando giunse in Italia, ospite del Centro Culturale P.M. Kolbe di VE-Mestre, che celebrava il 40° anniversario del martirio del celebre frate polacco. Divenne l’uomo del giorno e di pace, a tre mesi dall’assassinio dell’ingegner Giuseppe Taliercio, ex direttore del Petrolchimico di Portomarghera, perpetrato dalle Brigate Rosse. Erano tempi di piombo e l’uomo risparmiato dalla morte per un atto d’amore poteva suscitare speranza di pace. Parlò alla città con tanta umiltà e commozione, senza retorica. Abbassò gli occhi e raccontò il dramma, messo, mirabilmente, in scena (film Vita per vita) dal celebre cineasta Crzysztof Zanussi. Raccontò particolari toccanti, come quando «Kolbe uscì dalle fila, rischiando di essere ucciso sull’istante, per chiedere al Lagerfhurer di sostituirmi. Non era immaginabile che la proposta fosse accettata, anzi molto più probabile che il prete fosse aggiunto ai dieci selezionati per morire insieme di fame e di sete. Invece no! Contro il regolamento, Kolbe mi salvò la vita». Quel momento segnò la storia.

REAZIONI

Gajowniczek accettò di presentarsi anche agli studenti del Liceo classico R. Franchetti di Mestre, miei allievi, per rispondere alle loro domande. Già conoscevano la cronaca del martirio di Kolbe. Devo dire che il clima rispecchiava il tormento del terrore, suscitato in città dalle Brigate Rosse. E le domande erano tese. Sono rimaste inedite, tanto quanto le risposte, di cui vi riferisco, perché le ritengo di attualità.

Giovane 19 anni: «Lei non prova rimorso a viaggiare per il mondo con la faccia di un altro? Perché lei non si è rifiutato di essere sostituito?» R. «Amico, che domanda mi fa! Ad Auschwitz non era permesso nessun atto libero, nemmeno di pregare personalmente o di manifestare un gesto di solidarietà, di amicizia. Se ti attardavi per soccorrere qualcuno dei compagni, venivi riempito di botte e finivi nel fosso assieme al compagno. Se uno tentava di suicidarsi buttandosi contro i fili di alta tensione e non vi riusciva, veniva impiccato sulla piazza davanti a tutti. Noi eravamo proprietà del Terzo Reich».

Una ragazza: «Padre Kolbe, per me, mi dispiace per lei, ha fatto male a sceglierne uno, abbandonando i compagni che contavano molto sul suo appoggio per resistere. Lei che ne pensa?» R. «Una cosa è certa. Per i prigionieri p. Kolbe rappresentava tutto: il prete e l’animatore. Ci incoraggiava. Diceva che la guerra sarebbe finita presto e saremmo tornarti a casa tutti. Ci dava la forza di resistere. Era pronto a dividere con noi anche il suo pezzo di pane. Era unico e insostituibile. Questo è vero: lui ha scelto e il suo sacrificio, non la mia vita, è diventato maestro di umanità. Di più, signorina non so dirle. Mi perdoni».

Un professore: «La capisco. Ma anche nel suo caso, vale più la virtù o la fortuna?» R. «Direi la virtù. Almeno uno l’ha salvato. Il gesto di Kolbe è un successo».

  1. «Per chi? A noi che sentiamo questa storia vien da dire che non c’era bisogno di Kolbe e che lei girasse il mondo per farlo conoscere, se avessimo tagliato la testa a Hitler prima che fosse votato democraticamente. Questo bisogna capire da questa storia e non affidarla alla virtù di uno o alla fortuna. A me vien da dire che lei è stato fortunato e Kolbe virtuoso. La sua fortuna è la ragione del successo di Kolbe». R. Che le posso dire? Quello che vado dicendo da quarant’anni è che io ho visto in faccia un uomo più forte della morte. I miei occhi si sono incontrati con i suoi. I suoi brillavano e io piangevo. Amico, bisogna provare per credere che lo stupore non è sufficiente a interpretare i fatti. Altra cosa certa: io sono vivo perché Padre Kolbe mi ha amato. Se non mi avesse amato, nemmeno Dio mi avrebbe scelto. Lei la chiama fortuna. Io ho capito, invece, che Qualcuno ha pensato a p. Kolbe, a me e alla mia famiglia».

Una ragazza: «Lei sarebbe stato capace di dare la vita per salvare quella di Kolbe?» R. «Decisamente no. Avevo troppo odio e desiderio di vendetta in corpo».

Un giovane: «Perché il Comandante del Campo ha fatto un eccezione per lei?» R. «Non per me, ma perché Kolbe era un prete: e i preti, simboli di pace, dovevano morire! Ma i pacifici sanno morire. Di essi ci si può fidare. Danno la vita per amore degli altri».

Io conclusi, dicendo: «Nessuna guerra ha insegnato a non fare la guerra. Maestri di pace sono coloro che preferiscono morire, piuttosto che far morire. Oggi come ieri».

 

Luigi Francesco Ruffato, frate del Santo di Padova

Fonte: https://messaggerosantantonio.it/