Marsìlio da Padova


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Politico e teologo (n. Padova tra il 1275 e il 1280 – m. Monaco di Baviera tra il 1342 e il 1343), figlio di Bonmatteo dei Mainardini, notaio dell’università di Padova. Svolse studî di medicina a Padova, in un ambiente dominato dalla figura di Pietro d’Abano, conseguendo il dottorato. Recatosi a Parigi, si iscrisse alla facoltà delle Arti divenendone maestro e in seguito rettore (1313). Qui scrisse l’opera sua maggiore, il Defensor pacis (1324), e strinse rapporti con i maestri averroisti, in particolare con Giovanni di Jandun. Venne altresì in contatto con la dottrina della povertà evangelica sostenuta dagli Spirituali francescani, alcuni dei quali, come Guglielmo di Occam, Michele da Cesena, Bonagrazia da Bergamo, trovarono rifugio alla corte dell’imperatore Ludovico, dove, dopo la condanna pontificia del Defensor pacis, anch’egli riparerà. Nella sua opera M. intende svolgere un’analisi razionale della natura del potere politico, considerando non le varie forme di governo (come Aristotele nella Politica), ma le strutture stesse dell’organizzazione politica, il legislatore, la legge, il governo. La “totalità dei cittadini” (universitas civium) è la fonte unica della legge (legislator); il governo è l’espressione della totalità dei cittadini che lo elegge e ne controlla gli atti. Il governo quindi non è fonte di diritto, ma è sottoposto alla collettività. La legge, peraltro, non trae la sua forza da un principio naturale o divino, ma esclusivamente dalla volontà dei cittadini o nella loro totalità, dai sapienti agli artigiani, o nella “parte più valente” (valentior pars), lasciando fuori chi per natura è incapace di deliberare. In questa prospettiva, certamente originale, la legge trae valore dal suo essere tale, legge positiva, espressione di una volontà collettiva, imposta per il “bene vivere” della collettività. Il corpo politico è autonomo nell’imporre la legge, nettamente distinto dalla Chiesa, collettività dei fedeli che non può esercitare alcun potere positivo, (contro la tesi canonistica della “pienezza dei poteri” del pontefice), né può possedere beni terreni (secondo quanto insegnavano i maestri francescani vicini a M.). La Chiesa è la “totalità dei fedeli” (universitas fidelium) e ad essa spettano il controllo sull’autorità ecclesiastica, l’elezione dei sacerdoti e del papa (attraverso il concilio cui anche i laici devono prendere parte). Così radicalmente distinti, Chiesa e Stato sono autonomi nelle loro sfere: alla Chiesa spetta il compito di ammaestrare, ma non di scomunicare; allo Stato o Impero quello di esercitare il potere politico nella persona dell’imperatore; all’imperatore compete anche il supremo controllo sulla conformità degli atti papali alle decisioni conciliari e alla fede. Di queste sue teorie M. tentò anche una pratica realizzazione allorché, sceso in Italia al seguito di Ludovico il Bavaro nel 1327, organizzò la cerimonia dell’11 gennaio 1328 in cui l’imperatore ricevette le insegne del potere dalle mani di Sciarra Colonna, rappresentante del popolo romano; e ancora quando ispirò i documenti imperiali che dichiaravano deposto Giovanni XXII e nominavano l’antipapa Niccolò V. Tornato in Germania, M. compose anche il De iurisdictione imperatoris in causis matrimonialibus, poi rifuso nel Defensor minor (1342), e il De traslatione imperii.