L’UNIONE CHE CI SERVE


Di Maurizio Ferrera

 Il solco tracciato Le riforme vanno però giustificate all’interno di un quadro volto a preparare una nuova stagione di progresso
La maggioranza europeista ha tenuto, ma le destre hanno fatto un balzo in avanti. Il nuovo Parlamento europeo non rischia il temuto rovesciamento di alleanze (i popolari con Meloni e Le Pen invece che con i socialisti e i liberali). A livello nazionale l’avanzata delle destre ha tuttavia provocato forti turbolenze, azzoppando sia Macron sia Scholz. E a Bruxelles si confronteranno sempre più esplicitamente due diversi progetti strategici sulla Ue: uno di tipo federativo (quello della maggioranza) e uno di tipo confederativo (quello dell’opposizione).
Le destre propongono un incisivo ridimensionamento dei poteri Ue, circoscrivendoli il più possibile alle cosiddette competenze esclusive (unione doganale, concorrenza, moneta e commercio estero). Non potendo, nell’immediato, riformare i Trattati, in tutti gli altri ambiti ci sarà uno sforzo sistematico di ostacolare ogni misura che interferisca con qualche interesse nazionale. Ciascuna bocciatura (si tratta pur sempre della minoranza) fornirà una cassa di risonanza per accusare l’europa burocratica e insistere sulla necessità di tornare alle «nazioni». Dal punto di vista politico, il progetto confederativo va preso sul serio per almeno tre ragioni.
Fa leva su valori e promesse di protezione che rassicurano alcuni ceti sociali. Anche se guarda principalmente al passato, è percepito come «nuovo», alimentando speranze di cambiamento positivo in un clima di grande incertezza. Infine, il progetto non prevede uscite unilaterali come la Brexit e dunque non suscita più la paura di salti nel buio.
Il progetto concorrente, quello federativo, prende di petto le grandi sfide di oggi (il clima, le minacce di Putin, la concorrenza della Cina, la transizione digitale, la formazione dei giovani e le pari opportunità) e delinea soluzioni comuni. In termini politici, il progetto ha una debolezza: rischia di suonare «tecnocratico». Il messaggio che arriva ai cittadini è un po’ il seguente: se non rafforziamo l’integrazione, saranno guai, l’europa diventerà meno sicura e meno competitiva. È l’approccio che durante la Brexit si rimproverava ai «remainers», ossia i leader contrari all’uscita dalla Ue: il vostro è un «project fear», ci dite che dobbiamo accettare le limitazioni imposte da Bruxelles altrimenti staremo peggio. Ma noi stiamo già male, vogliamo un «project hope», un’agenda nuova che prometta più benessere e libertà.
Le visioni svolgono un ruolo cruciale in politica. La loro capacità di attrazione e motivazione tende però a diminuire con il passaggio dal mondo delle possibilità astratte e future a quello delle realizzazioni concrete nel presente. Il progetto federativo soffre oggi di questa sindrome: sta perdendo trazione ideale, in particolare agli occhi dei giovani.
Per i Padri Fondatori, l’integrazione era un «project hope», non mirava a scongiurare il peggio, ma a costruire il meglio. Per leader come De Gasperi, Schuman, Adenauer, l’unione sempre più stretta fra Paesi era veicolo di pace e prosperità: due miraggi nell’europa devastata del dopoguerra. Rispetto a quel punto di partenza, si può senz’altro dire: missione compiuta. Il fatto è che il mondo di oggi ci ripropone la stessa coppia di sfide. Il traguardo raggiunto (la creazione dell’unione europea e di un modello economico sociale che il mondo ci invidia) è esposto a nuove minacce di sicurezza e la nostra prosperità è insidiata da cambiamenti epocali.
Nell’ultimo quinquennio il progetto federativo ha fatto giganteschi passi in avanti. Il Green Deal, l’agenda per una transizione «giusta» e il Next Generation Eu hanno dato prova che le politiche comuni sono il miglior strumento per assicurare la resilienza delle nostre economie. Al tempo stesso queste politiche hanno confermato, per dirla con Mario Draghi, che «per noi europei il mantenimento di livelli elevati di protezione sociale e ridistribuzione è un punto non negoziabile». Pur con molta timidezza, è stato anche avviato un percorso di condivisione nella difesa comune. Opportunamente riformulato, Il binomio pace-prosperità si presta ad essere ancora il perno di una ambiziosa visione orientata al futuro. Le riforme vanno però giustificate all’interno di un quadro volto a preparare una nuova stagione di progresso. E perché ciò sia credibile occorrono proposte e sperimentazioni concrete sui tempi più vicini ai cittadini: lavoro, inclusione, opportunità.
Questa visione non è stata adeguatamente comunicata nella campagna elettorale. E c’è il rischio che la competizione con il progetto confederativo incentivi ora una rincorsa al ribasso e persino uno smantellamento delle acquisizioni (come il debito comune a sostegno, appunto, della prosperità collettiva). Per riacquistare il proprio carattere motivante, la visione europeista deve riaprirsi all’orizzonte delle possibilità e delle speranze. Se il futuro è presentato come una fonte di guai che richiedono solo sacrifici per «rimanere dove siamo», la regressione verso il grembo materno della patria è destinata ad essere sempre più seducente.

Fonte: Corriere