di Augusto Lucchese
Un attempato vascello, dopo avere solcato nel corso di alcuni lustri i mari e gli oceani della esistenza, sta portando a compimento quella che presumibilmente sarà la sua ultima traversata.
E’ quasi in vista del porto nebbioso e malsano in cui la spumeggiante scia, orgogliosamente tracciata nella azzurra distesa del mare aperto e arabescata dalla robusta struttura poppiera e dal massiccio timone, si perderà nelle stagnanti acque di un remoto e limaccioso molo di attracco.
E’ ben consapevole d’essere avviato, a conclusione del suo itinerario di vita e per raggiunti limiti di età, verso il paventato approdo finale.
Ivi giunto, non potrà di certo impedire che nel “brogliaccio di plancia” vengano annotate le convenzionali locuzioni di “fine viaggio”, pur se ciò potrà rappresentare il preludio della triste sorte che lo attende, alla stregua di tanti relitti in demolizione o in abbandono.
I suoi brillanti trascorsi e l’antica spavalda destrezza con cui ha sempre preso il largo per spaziare agilmente e liberamente nel vasto pelago, talvolta ben poco quieto e accogliente, non rappresentano più un valido lasciapassare verso ulteriori appaganti crociere.
Crociere che in passato, anche quando ha navigato di conserva, lo hanno portato a percorrere non facili itinerari, spesso insidiosi, accumulando nel virtuale forziere del tempo una enorme mole di miglia marine, puntualmente evidenziate nel corposo “diario di bordo”.
L’antico e prezioso “sestante” gli ha sempre fornito, quando necessario, i parametri per stabilire, pur nella vastità del mare, quel “punto nave” che in virtù di rigorose coordinate gli ha indicato, di volta in volta, la posizione e la rotta da cui non ha facoltà di scostarsi.
Tuttavia, la irreversibile vetustà delle “intelaiature” dello scafo e, in particolare, le irrimediabili gibbosità della “carena”, hanno incrinato di parecchio le sue originarie doti nautiche e adesso solo con zoppicante andatura e magari cercando di navigare di “bolina”, riesce faticosamente a solcare le vaste distese d’acqua, talvolta burrascose, che lo sferzano di prua, di poppa, di traverso.
L’affaticata e stanca prora, nel tempo tenace e invitta, arranca stentatamente verso incerti orizzonti, penando non poco nell’aprirsi un varco fra incalzanti e spumeggianti marosi.
Le vele, lacerate e fustigate dai venti gli consentono appena di flottare, oltretutto ben poco agevolmente, sulla cresta delle onde che s’inseguono e s’accavallano velocemente.
Confida, in ogni caso, nella sua provata capacità di tenere il mare, fronteggiando la pur impari lotta contro i tempestosi frangenti che di continuo e impietosamente lo abbordano, sin quasi a sommergerlo.
Malgrado le turbolenze che lo ostacolano, fa il possibile per cavalcare impunemente i paurosi frangenti o le non tanto mansuete onde che, imperterrite, gli si avventano contro per poi correre ad infrangersi, magari violentemente, sulle lontane scogliere o sulle spiagge più o meno indifese.
Non sempre, infatti, il mare si presenta mansueto, carezzevole e confortante.
Di contro, quando il vento lo sferza e la tempesta si scatena è proprio il rabbioso scontro con esso a fare scricchiolare paurosamente le malconce fiancate e le decrepite sovrastrutture del malandato “cassero” in cui traballano i fanali di tribordo e di babordo che irradiano una fioca luce verde o rossa.
E’ il momento della cruenta e incerta sfida fra gli infidi elementi della ribollente natura e il fragile battello che impavidamente li affronta.
Parecchio simile ad un fuscello in balia dell’incontenibile veemenza del mare in buriana, è ben conscio, oltretutto, di non potersi esimere dall’assecondare il piano di navigazione che, alla fine, lo sta avviando alla volta del suo indesiderato ultimo ormeggio.
Attraccato alla banchina, tenuto fermo da canapi e gomene agganciati a robuste bitte con sperimentati nodi alla marinara, verrà certamente posto in stato di disarmo.
Sarà l’ineluttabile fine d’ogni sua pregressa idoneità al “lungo corso”, negandogli l’intrapresa di altri viaggi, pur se di piccolo cabotaggio.
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La vita dell’uomo, almeno simbolicamente, è ben paragonabile al descritto insicuro veleggiare e fluttuare fra bonacce e procelle, ponendo essenzialmente in rilievo, tuttavia, che l’andare spavaldamente per mare non è da tutti.
Stare al timone anche di un semplice agile gozzo, magari solcando acque non perigliose, impone di essere temprati ad ogni rischio, sempre pronti ad affrontare ricorrenti insidie o imprevedibili bufere.
Per altro verso, pur se non in mezzo al mare quieto o in tempesta, si è spesso chiamati a lottare strenuamente contro gentaglia d’ogni specie e provenienza, appostata per fare male al prossimo, contro multiformi ingiustizie, innescate da pseudo “potenti” privi di coscienza, contro impreviste emergenze.
Senza dire delle debilitanti e rischiose lotte che talvolta si sviluppano nell’ambito familiare, nell’ambiente di lavoro, nel contesto delle cosiddette amicizie e conoscenze.
E’ ognor vero, tuttavia, ciò che Ernesto Che Guevara ha lasciato detto: – “… chi lotta può perdere, … ma chi non lotta ha già perso”.