Lo spettro di Trump e la sinistra

WASHINGTON, DC - FEBRUARY 5: U.S. President Donald Trump, with Speaker Nancy Pelosi and Vice President Mike Pence looking on, delivers the State of the Union address in the chamber of the U.S. House of Representatives at the U.S. Capitol Building on February 5, 2019 in Washington, DC. President Trump's second State of the Union address was postponed one week due to the partial government shutdown. (Photo by Doug Mills-Pool/Getty Images)


di Danilo Di Matteo

Donald Trump, ormai, è di nuovo candidato alla Casa Bianca. Candidatura non vuol dire vittoria, naturalmente. Tuttavia lo spettro di un suo secondo mandato prende corpo. Di lui si è sempre detto che è un repubblicano sui generis, scostandosi – e non di poco – dalla secolare tradizione dell’elefantino e del conservatorismo a stelle e strisce. Non sarò io a sminuire gli aspetti peculiari – innegabili – della sua personalità politica e della linea (o delle linee) che interpreta. Del resto, di essa vi sono letture molto sottili e approfondite, nel quadro più generale dei populismi e delle forme che stanno assumendo nel XXI secolo.

Non essendo del tutto smemorato (a proposito di elefanti), tuttavia, ricordo a me stesso e a chi mi legge che Ronald Reagan, simbolo e metafora dei lunghi anni Ottanta, nei suoi otto anni di presidenza, e subito dopo, non mancò di uscire dal solco della tradizione d’oltreoceano: la definizione, in piena videocrazia televisiva, dell’Unione sovietica come Impero del Male, l’interpretazione dell’Aids (proprio in quegli anni si diffondevano e venivano isolati i virus Hiv) come “punizione divina” dei gay (a differenza che in Europa, negli States il contagio riguardava soprattutto gli omosessuali) e dei “tossici”, le ipotesi volte a rendere più sfumati i confini tra sfera politico-statuale e sfera religiosa, al di là dei consueti ammiccamenti alla “destra religiosa” (prontamente rigettate dalla plurisecolare laicità “all’americana”). E, non ultima per rilevanza, appena concluso il secondo mandato, la campagna per consentire il terzo mandato presidenziale, presto interrotta dalla grave malattia neurologica che lo colpì. Un insieme di atti, di gesti, di parole che tendevano a sbiadire il celeberrimo sistema di pesi e contrappesi di quella democrazia. Parole e gesti che ammaliavano gli elettori, fra i quali non pochi “democratici per Reagan”. Una forma di populismo anche quella.

La “rivoluzione conservatrice” di quel decennio, naturalmente, si nutriva anche di ingredienti più classici, paragonabili a quelli seminati dalla premier britannica Margaret Thatcher: dalla deregulation all’enfasi posta sull’individuo, dal liberoscambismo alla riduzione della pressione fiscale e della spesa pubblica (smentita dai miliardi di dollari investiti nel riarmo. Un riarmo massiccio, forse senza precedenti, comprendente l’Sdi, l’iniziativa di difesa strategica, mediaticamente nota come “guerre stellari”: un programma antimissilistico mirante a rendere inoffensivo l’arsenale nucleare sovietico e ad assicurare così la supremazia militare e geopolitica di Washington).

In ogni caso, le sinistre, culturalmente, si trovavano quasi ovunque in difficoltà, nel mondo, anche laddove avanzavano elettoralmente o prevalevano. Il cosiddetto “socialismo mediterraneo”, da quello mitterrandiano a quello craxiano, da quello iberico alla Grecia di Andreas Papandreou, riusciva a proporre una sorta di risposta mite e moderata al riflusso conservatore globale, interpretando in maniera piuttosto originale le istanze di modernizzazione della società, del costume e dell’economia. Ma, contrariamente a quel che sembrava, non si trattava affatto di una risposta di ampio respiro e di lungo termine: il “vecchio” Stato sociale, costruito nei primi tre decenni del dopoguerra, era irrimediabilmente in crisi e non si riusciva a delinearne uno nuovo.

E oggi, dopo la caduta del “secondo mondo” (quello d’oltre cortina), una possente ondata di globalizzazione, una pandemia dal sapore apocalittico e guerre sanguinose in Europa o alle sue porte, la sinistra è ancora frastornata. Anzi, adesso più che mai.

E se Trump diventasse presidente? Se quello spettro si trasformasse in un ciclone o in uno tsunami? Ecco, le sinistre, l’intero campo del centrosinistra dovrebbero lasciarsi spronare da un’eventualità del genere per ridefinirsi e ritrovare le proprie ragioni, affinché, fra le due passioni d’incertezza – la paura e la speranza –, prevalga di gran lunga quest’ultima. Una speranza in grado di cominciare a rispondere subito alle angosce di milioni e miliardi di donne e di uomini.

Come? Il socialismo del XIX secolo presentava due radici: una più utopica, una più basata sull’analisi della società, sullo studio dell’economia e della storia (e in ciò si definiva “scientifico”). Non solo: lo stesso pensiero marxiano e marxista era attraversato, come direbbe Salvatore Veca, da una “corrente fredda”, “calcolatrice”, a tratti “cinica”, e da una “corrente calda”, utopica, a tratti onirica. In realtà, è il pensiero politico moderno – a iniziare, fra gli altri, da Niccolò Machiavelli (1469-1527) e da Thomas More (1477 o 1478-1535) – a nascere dalla tensione e dal contrasto fra i due aspetti. E l’opera dello storico Giorgio Spini Le origini del socialismo presenta significativamente il sottotitolo Da Utopia alla bandiera rossa. E, dunque, per tornare a tessere la trama politica e culturale della sinistra, occorrerebbe soffermarsi, nello stesso tempo, su entrambi gli aspetti: l’analisi puntuale della “realtà effettuale della cosa” e la capacità di tratteggiare scenari, orizzonti, prospettive. Al contrario, si tende per lo più a considerarli separatamente, limitandosi a evocare principi, valori, ideali o a studiare numeri e statistiche senz’anima. E se provassimo a vivere l’incubo Trump come l’occasione per un nuovo inizio, nutrito sia dai dati sia dalle aspirazioni soprattutto degli ultimi e dei penultimi?

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