LO SPAZIO DELL’UTOPIA PARIGI SENZA ANARCHIA


 

 

Apparso sulla rivista Mondoperaio nel gennaio 2012. Lo spazio dell’utopia è un viaggio tra arte e politica, un saggio sulle poche luci e sulle molte ombre della cultura contemporanea.

 

Di Massimiliano Perrotta

 

A Parigi per la mostra-installazione Voyage(s) en utopie. Si tratta di una grande opera multimediale di Jean-Luc Godard nella quale scene dei suoi film si affiancano a sequenze video realizzate per l’occasione, spazi allestiti dal maestro entrano in rapporto dialettico con scritte sparse dappertutto. Sono con Sara, la mia compagna di vita. Per fortuna è francese e con francese puntiglio prova a decifrare i doppi e tripli sensi che ogni frase condensa.

Esco dal Centre Pompidou frastornato: sono sicuro di non aver capito tutto e sono sicuro di non aver capito bene. Del resto è quanto sempre mi accade davanti alle opere di Godard. Ma come sono salutari le sfide che lancia all’intelligenza, come sono stimolanti i suoi flussi di immagini e parole che forse non vogliono essere tanto capiti quanto vissuti come un’esperienza. E che boccata d’ossigeno la sua guerra al semplicismo, alle storie narrate come se fossimo dei bambini sciocchi.

Vado alle Halles, dove Marco Ferreri girò nel 1973 il suo film Non toccare la donna bianca. Mentre il quartiere veniva sventrato dalle ruspe per fare posto a un centro commerciale sotterraneo, Ferreri utilizzò quel grosso buco nel cuore di Parigi per ambientarvi la storia del generale Custer sconfitto dagli indiani.

Il film ipotizza un tempo e uno spazio sintetici dentro i quali precipitano epoche e luoghi diversi: passato e presente convivono nella stessa immagine, siamo nel lontano west ma anche in una moderna metropoli occidentale. Il regista visualizza simultaneamente la trama e il suo significato metaforico, l’epoca di Custer e quella di Nixon gli sembrano contemporanee in quanto identiche sono le loro ideologie. Anche nel 1973 ci sono indiani inermi e soldati del Settimo Cavalleria pronti a colpirli: cambiano gli attori ma il copione resta lo stesso.

 

Non toccare la donna bianca è una sorta di manifesto poetico del cinema anarchico di Ferreri. Ma la sua anarchia non è un generico ribellismo contro il potere costituito o una comoda via di fuga per evitare di fare i conti con le cose come sono. L’anarchia di Ferreri è un autentico sentimento del reale: il suo sguardo velato di diffidenza è quello di chi sospetta sempre di stare subendo un’imposizione. Anarchica è anche la sua dimensione estetica: il regista destruttura il linguaggio filmico in nome di un cinema sempre da inventare, volta per volta.

 

Non toccare la donna bianca rappresenta un momento chiave del percorso ferreriano perché apre a una visione del mondo meno negativa. Il regista milanese intuisce per tempo che bisogna voltare pagina dunque, rischiando l’incomprensione, da sabotatore si fa profeta e nei film successivi prova ad andare oltre il Novecento. Ferreri ritiene che la catastrofe definitiva, quella da lui paventata e al tempo stesso auspicata in film come La grande abbuffata, sia già avvenuta: «Non con uno schianto ma con un piagnisteo» come aveva vaticinato Thomas Stearns Eliot. Uno stadio della civiltà occidentale gli sembra ormai concluso, è giunto il momento di rimboccarsi le maniche, di provare a edificare il nuovo. Ferreri non ha paura dei «barbari» contemporanei, non è tra quanti temono la messa in discussione dei vecchi valori. «Ho sentito urla di furore / Di generazioni, senza più passato, di neo–primitivi» canta allarmato Franco Battiato con la collaborazione letteraria del filosofo Manlio Sgalambro. Più che l’incertezza del futuro a Ferreri fanno paura le certezze del passato: «La vecchia cultura era il lavoro di diciotto ore, i bambini che lavoravano a sei anni… che altro era? La vecchia cultura copriva veramente una situazione di disperazione assoluta».

 

Vado alle Halles per vedere che ne è stato di quel buco e per interrogarmi su cosa resta dell’utopia che Ferreri vi proiettò. Trovo panchine, vialetti dove passeggiare quietamente, persino una bella scultura modernista. Gli spazi commerciali sotterranei non sono male, forse un poco claustrofobici.

Dell’utopia di Ferreri – sulla quale Maurizio Grande scrisse illuminanti pagine esegetiche – qui nessuna traccia.

 

Marco Ferreri concluse la carriera con il nostalgico Nitrato d’argento dedicato alle sale di una volta. A chi come me il cinema l’ha scoperto davanti allo schermo televisivo, il mito della sala risulta piuttosto estraneo: il cinema non è un luogo o un nastro di pellicola che scorre ma – secondo le magnifiche parole di Ferreri – l’infinito a portata di sguardo.

 

Il novecento ha fatto il cinema, purtroppo non ha fatto gli spettatori.

 

Il regista Silvano Agosti dice che «da quando il cinema è morto tutti fanno film». Il pensatore Guido Ceronetti annota: «Dubbi circa la morte di Dio, ne ho molti; sulla morte del Cinema, nessuno». Chissà.

 

A proposito dei piagnistei sulla crisi dell’industria cinematografica, ecco un luminoso consiglio del regista François Truffaut: «Quando nel cinema le cose non vanno molto bene, è da augurarsi che peggiorino, di modo che le colonne del tempio, lentamente trasformato in bordello, crollino provocando un rinnovamento dalle fondamenta».

 

Amo il cinema non per quello che fu, tanto meno per quello che è, lo amo per quello che potrebbe essere. Così talora mi capita di fantasticare che la storia del cinema debba ancora cominciare, che quanto finora s’è visto non è che la preistoria…

Avanti video!