Di Massimiliano Perrotta
Apparso sulla rivista Mondoperaio nel gennaio 2012. Lo spazio dell’utopia è un viaggio tra arte e politica, un saggio sulle poche luci e sulle molte ombre della cultura contemporanea.
Il dramma di questo stadio della modernità è uscirne. Gettati nell’oscuro presente senza orizzonti, rimanere lucidi per trovare i passaggi nascosti.
Da questa modernità non si esce con un «post».
Dopo aver ascoltato il suono della parola pubblico in bocca ai burocrati dell’arte, non si può che aborrire il proposito di creare per il «pubblico».
L’odierna industria culturale sembra irriformabile: chi ne fa parte non osa criticarla per paura di venire estromesso, gli altri vengono zittiti con la terroristica accusa di essere dei risentiti. Per fortuna un sistema che non tollera critiche sistema che non tollera critiche è incamminato verso la propria rovina.
Le capitali dell’industria culturale ogni autunno sono prese d’assalto da legioni di giovani aspiranti a sfondare, a diventare qualcuno. Oppure, qualora dovesse andare male, a essere assoldati dal sistema come «professionisti». L’idea che l’arte si possa farla per niente – per il piacere che dà, per una necessità interiore – la considerano puerile. Così le strade di Roma e di Milano pullulano di attempati «professionisti» in esubero che nessuno ha voluto comprare.
L’arte di Stato nei paesi poco meritocratici è un giocattolo per i figli dei ricchi finanziato dai figli dei poveri.
Si cammina per le strade di Napoli ammirati da tanta civiltà musicale. Un popolo che se ne infischia delle mode dell’industria discografica e si specchia in un universo canzonettaro autoctono di divi minimi che vengono dai bassi.
Superfluo stigmatizzare la boria con la quale i lacchè delle grosse fabbriche musicali bollano tutto questo come «sottocultura»: i napoletani – saggiamente – se ne fottono.
Nell’industria culturale la competizione è spietata. Ecco il paradosso dell’artista contemporaneo: per dare voce al fanciullino che alberga in lui, per mandare messaggi di fratellanza universale, per esprimere la sua parte migliore… deve essere il più cinico tra i cinici, il più arrivista tra gli arrivisti, il più stronzo tra gli stronzi.
L’artista autentico desidera comprendere più che essere compreso.
L’artista autentico – ci ha insegnato Arthur Schopenhauer – adopera l’arte non per affermare il proprio io, bensì per liberarsene oggettivandosi nell’opera.
Il Novecento è finito, non tutti se ne sono accorti.
La critica al momento più necessaria è quella culturale: la critica attenta non tanto alla forma o al contenuto dell’opera, ma alla sua sostanza. Costruite le fondamenta di una nuova cultura e di una nuova arte si potrà – con occhi nuovi – separare il grano dal loglio di questi anni.
«Un classico in letteratura, un monarchico in politica, un anglo–cattolico in religione»: l’autodefinizione di Eliot ha poco di paradossale. I suoi magnifici Quattro quartetti additano infatti la rotta di una fase per così dire classica del modernismo. Oggi Eliot risulta nostro contemporaneo non tanto per i furori giovanili quanto per i posati esiti della maturità. Oggi ci parlano soprattutto i modernisti che seppero superare la fase spettinata per guadagnare l’età adulta: il secondo Eliot, l’ultimo Pound, il nuovo Godard…
Tra i regali venefici dei nostri anni c’è una certa immagine di Jorge Luis Borges. Il Borges che talora ci viene proposto non è lo scrittore amante della misura classica, lo schopenhaueriano buddista attanagliato da sconcertanti ansie metafisiche, l’indagatore di vertiginose verità possibili come la coesistenza di universi paralleli: lo scrittore argentino ci viene presentato come un compiaciuto manierista, come un maniaco di inutili citazioni, come una specie di Calvino maggiore. Povero Borges, ridotto alla controfigura di se stesso, contrabbandato per un vecchio giocherellone!
Io amo un altro Borges: il veggente che intravide uno degli sbocchi del modernismo novecentesco e con il suo sorriso buono se ne sta lì a indicare il sentiero.
Verso la metà del Novecento Adorno scriveva: «Il compito attuale dell’arte è di introdurre caos nell’ordine». Missione compiuta. A noi tocca il compito ulteriore, ovvero – parafrasando un verso di Friedrich Nietzsche – costruire da queste rovine un mondo: selezionare nel magma una serie di frammenti per sintetizzarli in un nuovo cosmo, mai dimenticando che per apparire vera un’opera contemporanea deve avere qualcosa che non tiene.
È il momento di dire ciò che siamo, ciò che vogliamo. Domattina potrebbe essere tardi.
Nel «fallimento» dei Cantos è la loro riuscita. Si tratta infatti di un’opera programmaticamente smembrata i cui frammenti tendono verso un centro del quale denunciano simultaneamente la scomparsa. Poi, però, ci sono gli ultimi Cantos, i versi testamentari del vecchio Pound: così delicati, così essenziali, così classici…
Con i sedicenti sperimentatori difendere la giusta misura dei classicisti, con i classicisti tromboni difendere il sogno di libertà degli sperimentatori autentici.
Secondo l’anarchico Léo Ferré «la disperazione è una forma superiore di critica». Il nichilismo programmatico di molti modernisti non voleva essere preso in parola: il presupposto era – per dirla con Adorno – che «la perfetta negatività, non appena fissata in volto, si converte nella cifra del suo opposto».
Il flusso di coscienza, efficacissimo strumento nelle mani dei padri modernisti, appare oggi un’arma spuntata. Nato per rappresentare adeguatamente le numerose facce dell’io diviso, poco si presta alle responsabilità alle quali siamo chiamati. Ai nostri anni risultano più necessari i giudizi della sera di Sebastiano Addamo.
«Poeta sarà colui che almeno una volta avrà avuto vergogna di diventarlo»: pensieri come questo dicono la serietà abissale di Addamo. «Tra l’acquistare un libro o delle scarpe nuove per mia figlia, non ho mai avuto dubbi»: in nome di una letteratura fedele alle ragioni della vita, Addamo avrebbe rinunciato alla letteratura stessa.
Oggi abbiamo bisogno di gesti esatti.