Si sta svolgendo a San Vito Lo Capo, dal 17 al 26 settembre, il Cous Cous Fest. La graziosa cittadina trapanese è una delle destinazioni più gettonate della Sicilia. Il festival, giunto alla sua 24sima edizione, dopo un anno di assenza a causa della pandemia, nel primo fine settimana ha registrato il sold out. Ristoranti, bar, botteghe, bancarelle, presi d’assalto da migliaia di turisti
di Ettore Minniti
Il lockdown del 2020 sembra oramai appartenere ad un’epoca giurassica. Abbiamo tutti sofferto e non poco. Ha sofferto l’economia in genere: le partite Iva, le PMI, le attività commerciali, la ristorazione, le strutture ricettive e tanto altro ancora. In parte è merito dei vaccini, del green pass, del distanziamento, delle mascherine, in parte del senso di responsabilità in ognuno di noi. La libertà di muoversi, incontrarsi, stare insieme, godere dei momenti belli della vita, socializzare, è innata nell’uomo.
L’Italia pian piano si sta rialzando con una serie di importanti appuntamenti, dal salone nautico a quelli del camper, del mobile, della moda. Non è da meno la gastronomia, eccellenza anch’essa del Mady in Italy.
Si sta svolgendo a San Vito Lo Capo, in Sicilia, dal 17 al 26 settembre, il Cous Cous Fest. La graziosa cittadina trapanese è una delle destinazioni più gettonate della Sicilia: merito del festival dedicato al cous cous, che ormai ha guadagnato notorietà internazionale, ma anche della sua immensa spiaggia dai colori caraibici, lunga tre chilometri.
Il festival, giunto alla sua 24sima edizione, dopo un anno di assenza a causa della pandemia, nonostante sia stato organizzato in tono minore rispetto alle edizioni precedenti (è saltata tutta la parte degli spettacoli e dei concerti), nel primo fine settimana ha registrato il sold out. Ristoranti, bar, botteghe, bancarelle, presi d’assalto da migliaia di turisti giunti da tutta Italia e non solo ed anche dagli stessi siciliani.
Luci, suoni, allegria e voglia di gustare il cous cous riempiono l’anima, gli occhi e il palato di tutti i visitatori.
Un’organizzazione amministrativa e associativa perfetta, attenta anche alle intolleranze, soprattutto per i celiaci.
Sono otto i Paesi che partecipano al Cous Cous World Championship, il campionato del mondo di cous cous. Oltre all’Italia, l’Afghanistan gareggerà con lo chef Shapoor Safari (che già vive a Palermo), l’Argentina schiera in campo la chef Lola Macaroff, il Marocco lo chef Badr Benjelloun. Ci sarà lo chef stellato Vinod Sookar a gareggiare per Mauritius; per la Romania, per la prima volta in gara al festival, la chef Claudia Catana, la Spagna con lo chef Carlos Peña e infine il Senegal compete con lo chef Bamba Barry; Senegal detentore del titolo.
Oltre alla gara internazionale dell’integrazione culturale, si è svolto anche il Campionato italiano di Cous Cous. La competizione ha visto sfidarsi sei chef italiani ed ha vinto il palermitano Santo Petroccia. La sua ricetta, una semola di cous cous croccante aromatizzato al caffè e zenzero, con crema al mascarpone, crumble al cacao, arancia candita e pistacchi di Sicilia, ha conquistato anche uno dei premi speciali assegnati dalla giuria tecnica.
La patria del cous cous è il Maghreb, è il piatto emblema della cultura berbera (con il nome di seksu). Ma è diffuso anche in tutto il Mediterraneo, in Medioriente e in alcune zone dell’Africa subsahariana.
Ma che cos’è il cous cous? Si tratta di granelli di semola di frumento cotti al vapore. Il grano duro viene macinato grossolanamente, poi la semola viene aspersa d’acqua, lavorata a mano fino a ricavarne minuscole pallottoline e mischiate ad altra semola asciutta. Il tutto viene passato al setaccio per ottenere la grandezza giusta dei granelli. Ma il termine cous cous, oltre che l’alimento, indica l’intero piatto che viene portato in tavola. E qui ogni Paese, se non ogni famiglia, ha la sua tradizione e la sua ricetta.
In Marocco, Tunisia, Algeria e Libia la semola viene accompagnata da verdure e carni alla griglia o stufate. Non mancano le spezie, la frutta secca e i condimenti piccanti: il cous cous con un pizzico di harissa è tipico della Tunisia. La variante con il pesce al posto della carne è diffusa lungo tutte le sponde del Mediterraneo.
In Italia si mangia il cùscusu nel trapanese: il condimento qui è la ghiotta, una zuppa rossa di pesce misto (dove non devono mancare gamberi e scampi), con il tipico aglio di Nubia e mandorle.
Altro cous cous tricolore è il cascà di Carloforte e Calasetta, in Sardegna: una variante alle verdure dove gli ingredienti che non possono assolutamente mancare sono i ceci e il finocchietto selvatico. E anche qui il cascà racconta una storia di migrazioni e contaminazioni culturali: fu portato sull’isola di San Pietro nel XVIII secolo dai coloni liguri provenienti dall’isola tunisina di Tabarka (fonte internet).
Lo sport (vedi giochi olimpici e paraolimpici) unisce i popoli, ma il cibo è fonte di integrazione e aggregazione, scambio culturale, amicizia.
Questa è l’Italia che ci piace, l’Italia che riparte dalla gastronomia, questa è la Sicilia descritta da Johann Wolfgang von Goethe “L’Italia senza la Sicilia, non lascia nello spirito immagine alcuna. È in Sicilia che si trova la chiave di tutto […] La purezza dei contorni, la morbidezza di ogni cosa, la cedevole scambievolezza delle tinte, l’unità armonica del cielo col mare e del mare con la terra… chi li ha visti una sola volta, li possederà per tutta la vita”.