AGI – “Ebrahim Raisi ha vinto le presidenziali iraniane, in un voto pilotato e deragliato dal suo corso naturale, come attivista che ha perso tutto negli ultimi anni per le mie idee, non accetto il suo governo, perché è uno dei più gravi violatori dei diritti umani in Iran“. Ex giornalista, da decenni in prima linea dentro e fuori le carceri iraniane, tra soprusi e molestie, Narges Mohammadi, 49 anni già candidata al premio Nobel per la Pace, è tra le attiviste iraniane più in vista.
I suoi video in cui, senza indossare il velo – obbligatorio per le donne in Iran – parla dei temi più disparati, dalla pena di morte, alle condizioni nelle carceri, hanno fatto il giro del Paese rendendola un’eroina per molti giovani. In un’intervista con l’AGI, nella sua casa di Teheran – dove le autorità potrebbero venire a prelevarla da un momento all’altro, sulla base di un’ultima, recente condanna – racconta come intende “fare opposizione” al nuovo governo attraverso il rafforzamento della società civile e si dice certa che gli iraniani “torneranno in piazza”, perché la crisi economica è troppo profonda e “non basterà la revoca delle sanzioni americane” per ridare ossigeno alla Repubblica islamica, il cui vero problema per la crescita è “la corruzione dilagante in ogni settore”.
Come molti nel suo Paese, ha scelto di boicottare le elezioni dello scorso 18 giugno, in cui il Consiglio dei Guardiani – l’organismo controllato dalla Guida Suprema Ali Khamenei – ha ammesso solo sette candidati su quasi 600 registrati e per lo più tutti di campo conservatore. La scarsa competizione nel voto – segnato da un astensionismo record – ha facilitato l’ascesa del giudice ultraconservatore e capo della magistratura Raisi, che Amnesty International ha chiesto di indagare per il suo ruolo nelle esecuzioni di migliaia di prigionieri politici alla fine degli Anni ’80.
Mohammadi è stata anche la portavoce del Defenders of Human Rights Center, organizzazione ora bandita in Iran e co-fondata dall’avvocatessa e Premio Nobel Shirin Ebadi. Ad ottobre dell’anno scorso, è stata rilasciata anticipatamente sulla scia di un una vasta campagna internazionale e i timori per l’aggravarsi della sua salute in carcere: stava scontando una pena a 10 anni, comminatale nel 2015, con accuse legate al suo lavoro di attivista per i diritti umani. Meno di un anno dopo, pero, è già alle prese con una nuova condanna a 30 mesi di detenzione e 80 frustrate per “diffusione di propaganda” contro la Repubblica islamica, “diffamazione” e “ribellione contro le autorità penitenziarie”.
La battaglia contro le violenze sulle detenute
“La mia colpa è aver denunciato il direttore del carcere di Evin dopo che mi aveva personalmente picchiata, perché avevo organizzato uno sciopero delle detenute come protesta per la repressione brutale delle manifestazioni contro il caro-benzina del novembre 2019”, ricorda Mohammadi. Il numero esatto delle vittime di quell’ondata di proteste in Iran non è mai stato reso noto; secondo fonti non ufficiali, i morti sono stati almeno 200 e tremila i feriti. Già allora a capo della magistratura, le Ong per i diritti umani ritengono Raisi responsabile dell’impunità garantita a funzionari di governo e forze di sicurezza che in quel frangente hanno compiuto arresti di massa e torture.
“Nella mia vita sono stata condannata a un totale di 25 anni, ma è la prima volta che scelgono la fustigazione, sarà una nuova esperienza”, ride Mohammadi, lasciando intendere di aver già provato di peggio. Sulla violenza, soprattutto sessuale, contro le donne nelle prigioni iraniane, l’attivista ha ingaggiato di recente una battaglia che auspica si trasformi in una sorta di “#metoo dentro l’Iran”: su Clubhouse – social diventato popolare sia tra la gente comune, che tra i politici di diverso campo in Iran – in una room durata più di sei ore, con oltre 1.500 partecipanti, 15 donne hanno raccontato la loro esperienza di violenze sessuali dietro le sbarre.
“Si tratta di un fatto inedito”, spiega Mohammadi, intenzionata ad aprire anche un canale Telegram sul tema, “dagli Anni ’80 sono numerose le donne stuprate o molestate dai propri carcerieri, ma la maggior parte di loro ne parla solo una volta uscite dall’Iran; il primo passo, però, è proprio condividere le proprie esperienze e renderle un tema nell’opinione pubblica, poi si deve denunciare e infine creare istituzioni civiche in grado di fare pressione sul governo, affinché cambi le leggi”.
Un Paese sull’orlo di una crisi sociale
L’Iran di oggi, avverte l’attivista, è sull’orlo di una “crisi sociale”. Nonostante ci sia meno attivismo, per via della pressione esercitata anche negli otto anni del ‘moderato’ presidente uscente, Hassan Rohani, ragazze e donne “hanno sempre più consapevolezza dei loro diritti e iniziano a disobbedire agli uomini. La legge, però, è contro i diritti femminili e questo crea un pericoloso cortocircuito: sette anni fa, quando ero in prigione c’erano tre donne che avevano ucciso il marito, perché non avevano il diritto di divorziare, nel 2019 ne ho trovate 16”. Mohammadi è convinta che “la gente in Iran tornerà a protestare. La crisi economica è molto dura, gli iraniani sono frustrati, non può continuare così; se non fosse stato per la pandemia che ha chiuso le università (centri nevralgici del dissenso) e vietato i raduni, le proteste del novembre-dicembre 2019 sarebbero continuate”.
Non condivide l’idea che la revoca delle sanzioni americane, sul tavolo dei negoziati a Vienna per il ripristino dell’accordo nucleare, porti sollievo all’economia e di conseguenza alla diminuzione del malcontento popolare: “La situazione economica del Paese non può migliorare in modo reale, per via della corruzione dilagante in ogni settore. Una riforma della Repubblica islamica da dentro è impossibile, si deve cambiare la Costituzione e sottoporla a referendum: finché abbiamo in vigore il principio del Velayat-e Faqih (che consegna alla figura della Guida Suprema enormi poteri sulle azioni del governo) i diritti delle persone non saranno rispettati”.
Nonostante le minacce e le aggressioni da parte dell’apparato di sicurezza iraniano, a cui è soggetta anche in queste giorni fuori dal carcere, Mohammadi – a cui, tra le altre cose è stato vietato di uscire, dal Paese – non ha intenzione di arrendersi: “Mi manca tutto della mia vita passata, soprattutto i miei due figli”, confessa indicando la foto nel salotto che la ritrae coi piccoli Ali e Kiana, andati a vivere all’estero col padre e che non vede da sei anni visto che le è stato vietato uscire dal Paese. “Nonostante il prezzo che ho pagato, spero e credo che i nostri sforzi porteranno frutti, anche se non nell’immediato”.
Source: agi