L'incompiuta epopea dei comunisti italiani


AGI – “A cent’anni dalla nascita e a trenta dalla scomparsa”, come recita l’incipit del libro, cosa è rimasto del Partito comunista italiano, il più grande dell’Occidente? Senza pretesa di offrire una risposta definitiva e senza pretenderne una dal lettore, Mario Pendinelli e Marcello Sorgi firmano assieme una documentata neanche succinta storia dell’ingombrante ma rimosso, dell’indimenticabile e dimenticato colosso popolare. Quello in cui credettero milioni di italiani prima di restarne – incluso chi avrebbe detto un giorno: “comunista io mai” – irrimediabilmente orfani.

Quando c’erano i comunisti. I cento anni del Pci tra cronaca e storia (pp.383, Marsilio Ed., 18 euro), è uno strumento per rinfrescare la memoria a chi voglia riepilogare, ancorché estraneo agli archivi di scienze politiche e alla storiografia di mestiere, un secolo dal punto di vista di chi lo visse in rosso.

Immaginazione rossa

Fu il rosso delle bandiere e dell’inchiostro di Antonio Gramsci, fu il rosso sangue che i comunisti effusero tra i nemici o versarono del proprio nella Resistenza, ovvero quello sparso nell’Unione Sovietica e che molti finsero a lungo di non vedere. Finché quella storia, negli anni della palombella rossa di Moretti, si concluse tra un punto interrogativo e i puntini di sospensione. E il domani forse rimaneva tutto nella formula interlocutoria con cui oggi si conclude il libro, sfilata da una lunga intervista che Pendinelli fece a Umberto Terracini, fra i padri fondatori del Partito, recuperata da uno scaffale del 1981: “La crisi stessa del mondo contemporaneo, la caduta di tante speranze, la comparsa di tanti problemi imprevisti, sollecitano uno sforzo, una immaginazione diversa”.
Lo “sforzo” invocato dal vecchio Terracini, che un giorno lontano aveva fatto sbottare Lenin nella celebre condanna dell’estremismo “malattia infantile del comunismo”, e che per un periodo sarebbe stato espulso dal Partito per avere contestato la linea imposta da Stalin al Komintern, ebbene quello sforzo ci fu. Prima e dopo la caduta del Muro di Berlino. Si espresse – ma non bastò – con gli aggiustamenti ideologici, col cambio del nome, delle bandiere, delle segreterie e dei leader.

Ne permane traccia tuttora, ma si vede e non si vede, tra gli orfani che hanno perduto la mappa con le tombe dei padri. Anche “una immaginazione diversa” auspicava Terracini. Se ce n’è stata troppa o troppo poca da quel 1981 a oggi è complicato stabilire, ma ne servirebbe soprattutto oggi dopo la crisi del Covid-19. Perlomeno gli autori la ritengono necessaria, al pari di un impegno collettivo, a “una sinistra che abbia voglia di ricominciare, ripartendo da Gramsci”, se vuol salvare quel sogno d’Europa al quale aderirono il Pci di Berlinguer e già prima l’ambiguo Togliatti col suo Memoriale di Yalta, che doveva smarcare dalla matrigna sovietica un’eredità altrimenti congelata – per pavidità, opportunismo o fideistica adesione – presso i despoti del Cremlino.

Il domani interrogativo

E’ una sinistra che doveva o dovrebbe farsi, stando al “pro memoria” Pendinelli-Sorge, garante di un “vastissimo, nuovo ceto medio, nato da appena mezzo secolo” e già sfigurato dalle crisi: “I guasti che hanno disgregato le società occidentali e causato problemi politici di immane portata”, scrivono, “si possono riassumere nelle fragilità dei governi e nella debolezza crescente di tutti i sistemi democratici”. Dovrebbero gli ex comunisti – tra cui anche quelli “comunista io mai” – farsi garanti di un capitalismo inevitabile e pertanto da salvare, a conferma dei paradossi della storia, per scongiurarne l’implosione nell’anarcoliberismo o lo smottamento nel populismo.

Se il libro fosse un romanzo questo sarebbe uno spoiler, ma il senso del volume di Pendinelli e Sorge è depositato nei singoli capitoli, nei personaggi di una storia meno remota di quanto oggi appaia per eccessiva fretta di archiviare un secolo che forse così breve non fu.

La certezza è che resti veramente poco di un Secchia o di un Bordiga, e che ormai poco conti asseverare quanta strada “dell’affrancamento dal legame con l’Urss” percorsero Togliatti, Longo e Berlinguer. Molto più attuale sembra l’eredità intellettuale di Gramsci che si elevò – per esemplificarlo con gli autori – al di là del socialismo reale di Mosca, oltre il comunismo rurale di Mao, oltre quello di Castro e degli Inti-Illimani, radicando il suo pensiero “nel cuore della cultura europea” e più ancora italiana, con punti di riferimento quali Vico e Machiavelli. Di tale originalità si pavesano tuttora gli eredi e gli orfani di quel partito nella ricerca faticosa di idee, se non più di ideologie, anche se pare disseccata la “immaginazione diversa” reclamata da Terracini.

Eppure, con un manicheismo che ha costituito la cifra limite della sinistra comunista, quando Gramsci morì nel ’37, confidava lo stesso Terracini, “la notizia della sua morte passò come tante altre, fu accolta senza dolore, non suscitò emozioni”. Perché “Antonio ormai era estraneo al partito”, salvo a ripartire dalle sue posizioni con il ritorno di Togliatti in Italia nel 1944. Ma la storia dei comunisti italiani, alla fine, sarebbe rimasta senza il suggello alla trama perché il Pci, “neanche nel tempo del suo più rapido cambiamento, riuscì a farsi ‘possibilità dell’alternanza’, impedendo all’Italia di conoscere ciò che era già accaduto o stava accadendo negli altri Paesi europei: la sinistra di governo”. Questa fu qualche anno fa la riflessione di Veltroni, oggi ripresa da Pendinelli e Sorge. E se questa consapevolezza basti a fare, di quella sinistra, il medico di “fragili governi” e “deboli sistemi democratici”, sarà materia di un’altra storia. Che si potrebbe immaginare ma che ancora non c’è.

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Fonte: cultura agi