Ritratto della regione più ricca e popolosa d’italia. Milano magnetica, il dinamismo delle province, la sfida del Pirellone
Stefano Cingolani
Dal socialismo di Turati al fascismo di Mussolini, poi craxismo, leghismo, berlusconismo, divorando leader come Urano i propri figli Milano nell’ultimo ventennio ha cercato di coronare un suo sogno antico: sfidare Londra, e per questo la regione è persino un impaccio Le finanze della regione in palio sono sane: cifre che Fontana potrà vantare, mentre l’opposizione lo attaccherà sulla gestione della sanità Attorno al capoluogo c’è un territorio tutt’altro che depresso. Bergamo e Brescia guardano a est, un triangolo ideale con Verona
Ancor oggi è la più popolosa, quella che produce più manufatti e frutti della terra, la più ricca tra le regioni, con circa 40 mila euro annui per abitante e un prodotto lordo totale di 328 miliardi, il 22 per cento del pil italiano per avendo una popolazione pari al 17 per cento di quella nazionale. La Lombardia ha dato alla Chiesa cattolica dieci papi, ben tre nel ’900: Pio XI, Giovanni XXIII, Paolo VI, difendendo gelosamente il rito ambrosiano dal rito romano, una vocazione all’identità più che alla diversità. Ha generato novità politiche a ripetizione, non tutte positive: dal socialismo riformista di Filippo Turati al fascismo di Benito Mussolini fino al craxismo, al leghismo, al berlusconismo, divorando leader come Urano i propri figli. Ha più giornali e più case editrici di qualsiasi altra regione, eppure non è mai stata raccontata come merita nemmeno in letteratura. Forse è colpa sua o colpa nostra, dei non lombardi. Stendhal la amava, nella sua tomba al cimitero di Montmartre ha voluto che sulla lapide fosse impresso: “Arrigo Beyle, milanese, scrisse, amò, visse”. Basta passare in rapida rassegna autori legati alla Lombardia – anche se hanno vissuto altrove, l’hanno criticata, talvolta irrisa, mai rinnegata – per capire con quale brumosa mestizia abbiano rappresentato le loro terre. Gli studenti che non ci vivono o non l’hanno mai visitata, la conoscono per quel ramo del lago di Como e stillano sudore nel tentativo di comprendere, attraverso la storia, la religione, la poesia, un idillio tragico dal lieto fine. Poi arriva Antonio Fogazzaro con le ombre brumose e psicologicamente oscure del “Piccolo mondo antico”, con “Malombra” e quei laghi celtici che ospitano spettri. Piero Chiara, figlio di un doganiere siciliano impiegato a Luino, ha costruito le sue “piccole storie” di provincia tra il lago Maggiore e la frontiera con la Svizzera. Alberto Arbasino il male di vivere lo incontrava a Voghera, ma non lo salutava. Lucio Mastronardi a Vigevano, tra maestri e calzolai, ha costruito un’epopea nient’affatto provinciale. Mentre per Carlo Emilio Gadda la Brianza e la villa a Longone ingoiavano l’abisso freudiano del suo rapporto con la madre ungherese Adele Lehr e con la cognizione del dolore. Immagini che contrastano con l’altra faccia di una realtà pragmatica, tutto sommato materialistica e positiva, basti passare in rassegna quante volte i lombardi sono riusciti a risalire dalle catastrofi della storia; senza correre troppo indietro nei secoli delle oppressioni, ricordiamo l’entusiasmo tecnologico tra il 1870 e il 1915, i successi nella scienza applicata, il miracolo economico che l’ha vista protagonista dopo la Seconda guerra mondiale, cominciando dal basso, rottamando e riciclando i tondini di ferro estratti dalle macerie.
La Lombardia ha un problema: Milano. E Milano ha un problema: la Lombardia. S’è detto sempre tirèmm inànz, ma è difficile e divorziare è impossibile. La differenza comincia dai numeri grezzi: Milano un milione e 371 mila abitanti, la città metropolitana tre milioni e 300 mila in 134 comuni con una densità di 2.055 persone a chilometro quadrato (Roma con quattro milioni e 220 mila, ne ha 788 per km2). Dopo, a grandissima distanza, c’è Brescia con 200 mila abitanti. L’expo è il volano che ha rilanciato Milano dopo il decennio oscuro di Tangentopoli. E’ stato un processo, non un’occasione una tantum sia pur ben riuscita. Da allora ad oggi sono affluiti denari e sapere dalla finanza occidentale o dagli sceicchi. I grattacieli, Porta Nuova, le università, sono altrettante bandiere. La stessa pandemia appare come una lunga pausa seppur dolorosa e la ripresa ha riportato i flussi ben oltre il 2019. Questo ménage impossibile non è una novità, tanto meno potranno risolverlo le elezioni regionali del prossimo anno, ma chiunque vinca sarà chiamato ad affrontarlo perché forse mai dall’unità d’italia si era creato un distacco tanto grande. Milano nell’ultimo ventennio ha cercato di coronare un suo sogno antico: sfidare Londra, forse ancor più che Parigi o Francoforte, giocando in proprio; e per raggiungere questo obiettivo il resto della regione era persino un impaccio. L’intendenza seguirà, diceva Charles de Gaulle (o forse già Napoleone), invece le salmerie alle quali è stato lasciato lo stato social-assistenziale, non seguono. Il dilemma che si pone nello scegliere i candidati per le regionali rispecchia in fondo questo diaframma. Milano con le torri delle archistar s’allontana dalle ombrose valli e dalle ubertose pianure, s’avvicina ai suoi modelli agognati pur senza averli raggiunti, e così facendo rischia di perdere per strada il resto dell’esercito lombardo. Chi vuole vincere deve essere in grado di colmare il gap, senza fermare la locomotiva, ma agganciando ad essa il resto dei vagoni che, poi, non sono affatto arretrati come spesso si pensa.
A un non lombardo, la regione sembra tutta uguale, dalle valli alla valle, nonostante la evidente differenza tra le Alpi e la Pianura padana. Per un lombardo è diversa, plurale, contrastante. Ci sono più differenze di quanto s’immagini tra Bergamo o Brescia roccaforti dell’industria, ma irrorate da Venezia, dalla sua lingua e dalla sua cultura, Sondrio enclave incastonata tra montagne austere, Pavia incrocio tra germanesimo e romanità, Mantova rinascimentale e acquatica, le agrarie Lodi e Cremona. Con i suoi dieci milioni di residenti e una densità di 123 abitanti per chilometro quadrato è la regione più affollata d’italia, e tra le prime in Europa, vicina alla Baviera, all’île de France e al BadenWürttemberg. La popolazione straniera è superiore alla media italiana: un milione 206 mila abitanti pari all’11,9 per cento del totale, il 22,9 per cento di quella presente nell’intera Italia, al primo posto rumeni, egiziani, marocchini, albanesi, cinesi. Basterebbero questi pochi dati a spiegare perché quel che accade in Lombardia è fondamentale per il paese intero. L’indagine regionale della
Banca d’italia pubblicata a giugno ne aggiunge altri: la ricchezza netta delle famiglie lombarde ammontava nel 2021 a quasi 2.200 miliardi di euro, in crescita dell’1,9 per cento rispetto al 2019, contro un aumento medio dell’1 per cento in Italia; in termini pro capite era pari a circa 220 mila euro, il 30 per cento più del valore medio nazionale. Nel 2021 il reddito disponibile delle famiglie lombarde è cresciuto del due per cento a prezzi costanti, come in Italia, e ha superato il livello del 2019, compensando la forte diminuzione provocata dalla pandemia. Certo, non sono quattrini tutti prodotti in loco, perché la Lombardia gode della spesa assistenziale che nel nord è superiore a quella del mezzogiorno (17 mila euro in media l’anno rispetto ai 13 mila). Le erogazioni non legate al lavoro sono diffuse anche qui e non solo nel sud come vorrebbe un luogo comune. A dicembre dello scorso anno 197 mila famiglie hanno percepito reddito o pensione di cittadinanza, in linea con quanto registrato un anno prima. L’importo medio mensile, tuttavia, è risultato pari a 506 euro, un dato inferiore alla media nazionale, secondo l’indagine della Banca d’italia. Il tasso di disoccupazione è di poco superiore al 5 per cento, meno dei livelli pre crisi, circa la metà di quello nazionale e un terzo di quello meridionale.
La regione in palio (la data del voto dovrà essere decisa dal governo) può vantare finanze sane. Il bilancio s’è chiuso con un avanzo pari a 34 euro pro capite (erano 12 a inizio 2020), mentre in media le altre regioni a statuto ordinario mostrano un deficit medio di 608 euro pro capite. Tutte le province e la città metropolitana di Milano hanno un avanzo, in media pari a 12 euro pro capite. I comuni lombardi si sono confermati negli ultimi cinque anni in una buona condizione finanziaria, migliore della media italiana. Alla fine del 2021 lo stock complessivo di debito delle amministrazioni locali ammontava a 10,7 miliardi di euro, il 12 per cento del debito complessivamente contratto dalle amministrazioni locali italiane. Ciò equivale a 1.072 euro pro capite, molto meno della media nazionale. Sono cifre che Attilio Fontana, il presidente uscente, potrà vantare, mentre è prevedibile che l’opposizione lo attaccherà sulla gestione della pandemia e in generale sulla sanità che assorbe di gran lunga la quota maggiore del bilancio. Anche qui il divario tra Milano e il resto della regione è molto ampio. I centri di eccellenza si concentrano nel capoluogo con poche eccezioni come Pavia. E una delle polemiche ricorrenti riguarda non solo il gap tra centro e periferia, ma tra il privilegio della sanità privata e le pene finanziarie-strutturali di quella pubblica. La stessa dinamica si ripete con l’istruzione e soprattutto le università: non c’è nulla che possa rivaleggiare con il Politecnico milanese o la Bocconi. Sarà il Pnrr a colmare il fossato? Alla fine di maggio le risorse assegnate agli enti territoriali lombardi per interventi da realizzare entro il 2026 ammontavano complessivamente a 3,5 miliardi di euro (oltre il 10 per cento del totale), pari a 350 euro pro capite (576 nella media nazionale). I programmi che mirano al potenziamento dei trasporti pubblici assorbono oltre un quinto delle risorse complessive, mentre un altro 20 per cento è dedicato a interventi per favorire la qualità dell’abitare e la riqualificazione urbana, anche con piani integrati al fine di una migliore inclusione sociale.
Ma nessuno degli interlocutori che abbiamo sentito si fa illusioni, Milano continuerà per la sua strada, anzi, metterà la quinta perché è ancora lontana dalla meta: è solo al 45° posto tra le 126 principali piazze finanziarie internazionali considerate dal Global Financial Centres Index. Nel confronto con le concorrenti europee, Piazza degli affari è meno sviluppata: gli operatori finanziari presenti sono meno numerosi e, specie nel segmento dei fondi pensione e di investimento, hanno dimensioni minori. La sua rincorsa alle vette della modernizzazione non può fermarsi. Negli ultimi anni, scrive Bankitalia, si sta assistendo a una nuova ondata innovativa caratterizzata dall’ingresso nel mercato di nuovi operatori: grandi aziende tecnologiche (le cosiddette Bigtech) e imprese che offrono soluzioni per i servizi finanziari, bancari e assicurativi che fanno leva su nuove tecnologie e nuovi modelli operativi (imprese FinTech). Seppure in ritardo nel confronto internazionale, il comparto Fintech si sta sviluppando rapidamente anche nel nostro paese e, alla fine del 2021, operavano sul territorio nazionale circa 580 soggetti, di cui il 15 per cento con sede all’estero. Tuttavia, secondo i dati del rapporto State of European Tech 2019 e Dealroom, gli investimenti nel comparto effettuati in Italia nel biennio 2018-19, sebbene in crescita rispetto al biennio precedente, sono stati significativamente più contenuti nel confronto con i principali paesi europei. L’incidenza sul pil era di circa sei volte inferiore rispetto a quella del Regno Unito e quasi la metà di quanto registrato in Francia, Germania, Paesi Bassi e Spagna. Milano e Roma sono le uniche realtà italiane che compaiono nelle classifiche internazionali dei centri dell’industria Fintech, sebbene entrambe occupino posizioni non di primo piano: secondo il Global Fintech Index, nel 2021 il capoluogo lombardo si collocava al sessantunesimo posto tra le località censite e la capitale d’italia al centoquarantunesimo. La strada da percorrere, dunque, è lunga e non può essere percorsa da soli né soltanto da Milano.
Attorno al capoluogo lombardo si muove un territorio in cerca anch’esso di una nuova dimensione, ma tutt’altro che depresso e paludoso. Al contrario. Bergamo e Brescia, rimaste attaccate alla manifattura anche dopo la de-industrializzazione milanese, stanno vivendo una loro vita che guarda a est e compone un triangolo ideale con Verona. La spinta viene dall’economia, dalle nicchie d’eccellenza, dalle multinazionali tascabili, ma anche dai servizi, dalla ricca agricoltura (si pensi al boom vinicolo della Franciacorta sulla riva occidentale del Garda), dalle infrastrutture, dalla istruzione. Bergamo città della cultura 2023 assume così un valore simbolico. Anche qui c’è una fisiologica distanza con l’entroterra, lo dimostra la stessa dinamica politica con un’alternanza alla guida dei comuni oggi entrambi di centro-sinistra con Giorgio Gori a Bergamo e a Brescia Emilio Del Bono corteggiato dal Pd perché sfidi Attilio Fontana alle prossime regionali. Ma non si è prodotta quella profonda frattura che separa Milano e si ripercuote sull’intera regione. La politica che certamente mantiene una dimensione fortemente locale, ambisce a uscire da una dinamica parrocchiale, a Bergamo o a Brescia la borghesia industriale e finanziaria non se ne tiene fuori, al contrario di quella milanese che l’ha considerata a lungo una dimensione parallela, è disposta a giocare le sue carte e a “metterci la faccia”. Ora che il ciclone Meloni ha travolto anche i leghisti lombardi, si aprono spazi interessanti in una opinione moderata desiderosa di nuovi punti di riferimento, in un centro sparpagliato e in una sinistra in cerca di leader e d’identità. Questi spazi spiegano la discesa in campo di Letizia Moratti, un campo allargato anche verso destra.
Sulla Lombardia, dunque, si sono accesi i riflettori della politica nazionale, può essere un vero test per gli equilibri futuri, ben più del Lazio chiuso in se stesso. Chi vuole vincere deve scegliere un candidato che non parli solo a Milano. La questione vale per ogni forza politica, ma è più rilevante per l’opposizione di sinistra perché la Lega ha sempre avuto l’ambizione di rivolgersi al piccolo lombardo e ha colto senza soluzione di continuità l’eredità democristiana, mentre la sinistra al contrario ha una propensione per il gran lombardo che sta sotto la Madonnina. Candidare Giuliano Pisapia sarebbe stato scegliere il nocciolo duro meneghino. Puntare su Letizia Moratti è aprire a tutto il resto, al mondo cattolico così radicato, alla provincia, al popolo delle partite Iva gettato per decenni nelle braccia dei commercialisti alla guida del Carroccio. Ma questa sarà la storia dei prossimi mesi.
Fonte: Il Foglio