Le regioni italiane tra federalismo e centralismo


 

 

di Luciano Vandelli – L’Italia e le sue Regioni

 

Sin dall’epoca dell’unificazione, la questione regionale ha alimentato un rigoglioso dibattito, contrassegnato da contrapposizioni e alternanze di posizioni che spaziavano da orientamenti marcatamente centralisti a tendenze di tipo federalista. Queste ultime sembravano trovare aperture già nella visione di Mazzini, che concepiva le regioni come livelli intermedi, capaci di dare all’unità forze sufficienti per tradurre in atto ogni progresso possibile nella loro sfera e di semplificare e snellire l’andamento della cosa pubblica.

Tali concezioni non mancarono di influenzare i primi progetti di regionalizzazione, elaborati sotto il governo Cavour, nei quali, peraltro, prevaleva un’idea di creazione delle regioni quali ambiti di decentramento dell’amministrazione statale, in una prospettiva di integrazione unitaria, in cui l’esecutivo nazionale, delegando le sue attribuzioni ai governatori regionali, veniva a configurarsi comunque quale fulcro dell’intero sistema. In questa direzione, le proposte sostenute dal ministro dell’Interno Luigi Carlo Farini (1812-1866) e dal suo successore Marco Minghetti (1818-1886) inquadravano le regioni come circoscrizioni dell’amministrazione periferica dello Stato, cui si affiancavano regioni-enti autarchici, costituiti come ‘corpi morali’ da consorzi obbligatori tra province e retti da una commissione di membri nominati, al proprio interno, dai Consigli provinciali.

In concreto, peraltro, per la istituzione delle regioni ordinarie si dovette attendere quasi un trentennio; mentre le regioni ad autonomia speciale avviavano la propria esperienza in un quadro generalmente contrassegnato da un dominante centralismo. Solo alla fine degli anni Sessanta, il Parlamento approvava le discipline essenziali per la effettiva regionalizzazione della generalità del territorio italiano, vale a dire la legge elettorale 108 (17 febbr. 1968) e la legge finanziaria 281 (16 maggio 1970), grazie alle quali si giunse, il 6 giugno 1970, alla prima elezione dei Consigli regionali e, quindi, all’approvazione degli statuti, avvenuta tra maggio e luglio 1971, nonché all’emanazione, nel gennaio 1972, dei primi decreti di trasferimento delle funzioni. Così, pure tra vistosi limiti e carenze, l’inizio degli anni Settanta segnava una tappa fondamentale per il regionalismo, costituendo nuovi, importanti livelli di autonomia territoriale, aprendo una inedita articolazione del potere legislativo, ora suddiviso tra Parlamento nazionale e assemblee regionali, e redistribuendo una serie di funzioni amministrative prima esercitate a livello centrale. Il conseguimento di questi assetti, peraltro, non pose fine al dibattito, anche e particolarmente sulle inadeguatezze dei primi trasferimenti, fortemente contrassegnati dal trattenimento di competenze in capo a organi statali e da una complessiva frammentazione delle funzioni; inadeguatezze cui si intese porre rimedio con l’emanazione del d.p.r. 24 luglio 1977 nr. 616, attuativo delle deleghe previste dalla l. 22 luglio 1975 nr. 382.

A pochi anni di distanza dall’approvazione del federalismo amministrativo, una riforma costituzionale – approvata a larghissima maggioranza nel 1999 – provvedeva a rivedere la forma di governo delle regioni, introducendo l’elezione diretta del presidente della regione e rafforzando, nel contempo, l’autonomia statutaria. In sostanza, al fine di accrescere il peso delle istituzioni regionali, una revisione degli artt. 121, 122 e 126 Cost. prevedeva l’adozione di un sistema di governo analogo al modello già positivamente applicato agli enti locali a partire dalla legge sulla elezione diretta del sindaco (l. 25 marzo 1993 nr. 81). È un sistema originale, che riprende elementi caratteristici della forma di governo presidenziale (quale si è storicamente plasmata, a partire dal prototipo americano) e altri propri di quella parlamentare (secondo le tradizioni prevalenti negli Stati europei), aggiungendo qualche tratto del tutto innovativo.

 

LA RIFORMA DEL TITOLO V

Se con la legge costituzionale del 1999 le regioni si sono rafforzate sotto il profilo del sistema di governo, e con la riforma del titolo V del 2001 che esse hanno acquisito nuovi e diversi compiti e, più complessivamente, una rinnovata collocazione nel quadro delle istituzioni repubblicane. L’impianto costituzionale che ne è derivato, in effetti, ha inteso rilanciare il regionalismo sotto vari profili, a partire dalle competenze legislative, comparto ormai retto dal criterio secondo cui spetta alle regioni la titolarità della potesta legislativa generale, in tutte le materie non espressamente riservate allo Stato dalla Costituzione.

Del resto, se per un verso, la nuova versione dell’art. 117 Cost. riserva alla competenza statale soltanto le materie espressamente considerate, per l’altro essa amplia notevolmente gli ambiti di legislazione concorrente, in cui allo Stato pertiene la determinazione dei principi fondamentali, ambiti che ricomprendono materie quali l’istruzione, la tutela della salute, il governo del territorio, ma anche – in termini più contestabili e contestati – le grandi reti di trasporto o trasporto e distribuzione nazionale dell’energia.

Per le funzioni amministrative, invece, l’impostazione adottata si basa sui principi di sussidiarietà, differenziazione, adeguatezza, con attribuzione delle funzioni amministrative anzitutto ai comuni, quali enti più vicini ai cittadini; mentre i livelli superiori (province, citta metropolitane, regioni, Stato) ne sono destinatari soltanto quando, per assicurarne l’esercizio unitario, le funzioni stesse richiedano un’operatività in ambiti più ampi e appropriati (art. 118 Cost.). Oltre alle diverse condizioni già riconosciute alle regioni a statuto speciale (istituite fra il 1946 e il 1963), nuovi elementi di flessibilità del sistema regionale vengono previsti dall’art. 116 Cost., con l’apertura a possibilita di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” in determinate materie, alle regioni che ne assumano l’iniziativa, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi che reggono il sistema finanziario. Il riconoscimento di queste ulteriori forme si effettua con legge, approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di una intesa tra lo Stato e la regione interessata. Ancora, una valorizzazione dell’autonomia – estesa, per questi aspetti, anche a comuni, province, città metropolitane – si registra sul piano dei controlli amministrativi (con la soppressione dei controlli preventivi sui singoli atti) e su quello delle risorse. È infatti contemplata un’autonomia finanziaria basata su tre fonti: tributi ed entrate propri, compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al proprio territorio e fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale. Queste, nel loro insieme, devono garantire le risorse idonee a finanziare integralmente le funzioni pubbliche attribuite.

Se, complessivamente, la riforma del 2001 tendeva dunque a una rivalutazione del ruolo delle regioni e delle autonomie locali nell’impianto costituzionale, l’evoluzione concretamente realizzatasi negli anni successivi sembra evidenziare un quadro alquanto problematico. L’attuazione del disegno costituzionale si è rivelata molto più travagliata e oscillante di quanto si potesse prevedere, tra fasi ed elementi di inerzia, difficoltà di interpretazione, conflittualità e ritardi, sullo sfondo di una crisi economica che dal 2010 si è rivelata di straordinarie dimensioni e gravità, affiancata, in Italia, a un’ondata di antipolitica che ha colpito in via generale le istituzioni, ma ha riguardato anche e particolarmente le regioni. La fase immediatamente successiva all’entrata in vigore è stata contrassegnata da un cambio di maggioranza politica, che ha visto subentrare alla coalizione di centrosinistra, che aveva approvato la riforma, quella di centrodestra, fortemente ostile alla riforma stessa e determinata, più che ad approvare le leggi e i provvedimenti per renderla operativa, a varare una revisione assai ampia della Costituzione, nota come ‘devolution’, largamente alternativa alla precedente. Ma se la riforma del 2001, sottoposta a referendum, era stata approvata a larga maggioranza dal corpo elettorale, quella del 2005, fu invece altrettanto nettamente respinta dal referendum tenutosi nel 2006.

La legislazione di attuazione della riforma del titolo V è rimasta quindi inevasa per un primo lungo periodo, interrotto soltanto dalla l. 5 giugno 2003 nr. 131, intitolata appunto Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, nr. 3. In realtà si è trattato di un adeguamento alquanto parziale, riguardando soltanto alcuni aspetti e comunque rimasto inattuato precisamente nelle parti più rilevanti, ove si delegava al governo il compito di approvare i decreti per i trasferimenti di funzioni amministrative conseguenti alla riforma costituzionale. Occorre attendere il 2009 per l’approvazione della prima legge su un tema di grande rilievo per l’attuazione del disegno del titolo V, l’art. 119, relativo all’autonomia finanziaria di regioni ed enti locali, l’unico condiviso dalle maggiori forze politiche di entrambi gli schieramenti. Si tratta, precisamente, della l. 5 maggio 2009 nr. 42, concernente la «delega al Governo in materia di federalismo fiscale». Ma se l’impianto costituzionale risulta condiviso, anche questa volta la disciplina attuativa non è priva di contestazioni, per la sua eccessiva genericità, per vari profili e anche questa volta, nel corso dell’attuazione, non sono mancate e non mancano difficoltà e inadempimenti. Con questi limiti, tuttavia, si consegue l’approvazione di una serie di decreti attuativi, a partire da quelli sulla determinazione dei costi e dei fabbisogni standard (d. legisl. 26 nov. 2010 nr. 216) e sull’attribuzione alle regioni, oltre che agli enti locali, di un proprio patrimonio (d. legisl. 28 maggio 2010 nr. 85). Negli anni successivi al 2009, peraltro, il processo di attuazione del ‘federalismo fiscale’ ha risentito particolarmente degli effetti della crisi economica, mescolando le logiche dei propri obiettivi nella complessa serie di misure volte al contenimento della spesa.

 

Fonte: treccani.it

Foto in copertina: ilsole24ore.it