di Antonello Longo
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L’attacco russo continua anche verso l’Ovest dell’Ucraina. I diversi incontri per tentare di arrivare ad una tregua nello scontro armato non hanno prodotto risultati apprezzabili. Un simile turbinio diplomatico non si vedeva in Europa dai tempi della glasnost gorbacioviana, ma i leaders europei non sono mediatori credibili, essendo chiaramente schierati da una delle due parti contendenti. Cina, Turchia, Israele possono far meglio? Forse, ma il dato di fatto è che finora la Russia non è stata disposta ad alcun vero negoziato e non lo sarà, c’è da credere, fino a quando non avrà raggiunto almeno i risultati minimi prefissati dall’invasione: stabilire la continuità territoriale sulla costa del Mar Nero che unisca il Donbass alla Crimea ed il pieno controllo della capitale, Kiev.
Stando alle notizie fatte trapelare, l’Ucraina ha già messo sul tavolo della trattativa la cessione alla Russia, sotto forma di riconoscimento dell’indipendenza, del Donbas e della Crimea ed anche la promessa di mantenere in futuro una posizione neutrale, cioè rinunciare all’adesione alla Nato e, forse, anche all’Unione europea. Tuttavia appare evidente che questi esiti, che Mosca ha in gran parte, di fatto, già ottenuti, non costituiscono, nemmeno nell’immediatezza, i veri obiettivi di Putin. La posta in palio, non in prospettiva futura ma nell’immediato, è un’altra: l’abbandono del governo da parte di Zelensky con la restaurazione dell’ancien régime di Yanukovich (o altro esponente filorusso) spazzato via dall’Euromaidan, la rivolta di popolo ucraina del 2014.
La mia opinione è che base di questa guerra non sia una risposta militare russa alla “aggressione” della Nato, la quale – a torto o a ragione – ha già spinto le sue installazioni militari presso una lunghissima linea di confine con la Russia, bensì la negazione della possibilità per l’Ucraina di autodeterminarsi rispetto alle proprie scelte ed al proprio governo. Per capire Putin basta ascoltarlo: l’Ucraina come nazione e come Stato indipendente non ha motivo di esistere, perché essa è parte integrante, nella concezione dell’autocrate del Cremlino, del popolo russo, della sua storia, della sua cultura, e quindi deve tornare sotto l’ala della “Grande Madre Russia”.
A parte la visione nazionalista, revanscista con la quale il despota (ogni despota) cerca di galvanizzare il suo popolo per assicurarsene il consenso (ed avere la scusa per reprimere il dissenso), la minaccia più seria da sventare è l’affermazione di un sistema liberaldemocratico in un Paese la cui popolazione è oggettivamente legata alla Russia da stretta familiarità personale, linguistica e culturale. Azzardo col dire che questa guerra ha per l’oligarchia russa la funzione preventiva di impedire il ripetersi di una situazione in qualche modo simile a quella della DDR dopo la seconda guerra mondiale: uno stesso popolo (come Putin ritiene essere russi e ucraini) che è separato solo per imposizione politica internazionale, vive in due regimi opposti, allora comunismo vs democrazia come oggi assolutismo politico vs società aperta, non regge alla lunga il peso della differenza. Il perdurare di quella situazione portò infine, nel 1989, alla caduta del muro di Berlino, che determinò l’implosione di tutto il sistema sovietico e cambiò il mondo. L’attacco, adesso, alla libertà dell’Ucraina, ancor più che ad altri fini, mira a salvaguardare il popolo russo dalla contaminazione della vita e dei costumi occidentali, non tanto sul piano dei consumi, quanto su quello delle dinamiche politiche.
In altre parole, ciò che Putin difende è soprattutto il potere egemonico che esercita all’interno del suo Paese. Egli, poi, sa bene di non poter tornare ai tempi dell’Unione sovietica ma, proprio per questo, tenta di recuperare il ruolo di potenza (atomica) mondiale la cui sfera di influenza, come ai tempi della guerra fredda, sia riconosciuta come intangibile e gli assicuri, proprio come ai tempi dell’URSS, materie prime (compreso il lavoro) a basso prezzo e mercati di sfogo sicuri e piegati alle esigenze del sistema produttivo russo, il quale stenta oggi (e ciò spiega anche la scelta dei tempi della guerra) a reggere il passo nella competitività richiesta dalla globalizzazione dei mercati e dei flussi finanziari.
Se in questa mia lettura dello scontro in corso c’è qualcosa di verosimile, allora acquista un senso l’opinione diffusa che la guerra di Putin (destinata, se vincente, a estendersi prima o poi a tutte le zone limitrofe non ancora protette dall’ombrello della Nato) rappresenti in realtà un attacco al modello occidentale di società aperta e di democrazia liberale. Non si dimentichi che oltre alle bombe e ai carri armati, la guerra si dispiega da anni nel cyberspazio, con tutte le armi della propaganda, dello spionaggio e dell’ingerenza politica.
È interessante osservare come questi aspetti del conflitto, al di là della sensazione e dell’emozione suscitate in tutti dal dramma umanitario, si ripercuotono sulle reazioni e sulle opinioni degli italiani. Più che gli atteggiamenti e le posizioni delle forze politiche, non sempre coerenti, spesso strumentali in chiave opportunistica, sono l’incessante chiacchiericcio televisivo che ha preso il posto di quello sulla pandemia e, soprattutto, il massiccio intervento delle persone comuni attraverso i social media, a fare da specchio alle fibrillazioni, alla profonda inquietudine, della nostra società. Un dibattito fortemente influenzato dal retaggio delle divisioni ideologiche del Novecento tra favorevoli e contrari all’alleanza atlantica e dalle diverse valutazioni sull’attuale sistema economico neoliberista legato alla globalizzazione. Sono visioni molto dissimili ma accomunate dalla difficoltà di giungere a conclusioni non contraddittorie ed a proposte concrete. Ne parleremo.
(Immagine da Fanpage.it)