Migliaia di palestinesi sono detenuti nelle carceri israeliane e le visite coniugali, così come qualsiasi altro contatto fisico, sono negati. A partire dai primi anni Duemila, ai detenuti che desiderano avere dei figli non resta quindi che contrabbandare il loro sperma fuori dalla prigione, nascondendolo nei regali destinati agli altri figli. Una fotografia, in particolare, mostra una provetta di fortuna ricavata da una penna e nascosta in uno snack.
“Molti uomini hanno partecipato ad azioni militari durante la seconda Intifada – spiega Faccilongo – sono considerati dei martiri viventi e i bambini nati con l’inseminazione in vitro sono il frutto dell’amore tra questi prigionieri e le loro mogli. Sono figli di combattenti, ma i genitori non li stanno crescendo insegnandogli a fare la guerra. Vanno a scuola, imparano a conoscere la storia del loro paese, potrebbero semmai diventare futuri leader culturali”.
Il reportage di Faccilongo va avanti da anni ed è destinato a proseguire nel tempo. Il fotografo ha conquistato a piccoli passi la fiducia degli interlocutori, rispettando le usanze del luogo. “Sono quasi diventato un membro della famiglia, l’ho capito quando una delle donne che ho fotografato mi ha abbracciato e dentro casa si è tolta il velo. Con le donne è vietato qualsiasi contatto, non si può stringere loro la mano. Il fatto che si fidassero di me mi ha reso orgoglioso”.
Nel corso degli anni Faccilongo ha instaurato un legame molto intenso con alcuni protagonisti del suo lavoro, come nel caso della famiglia Rimawi. “Il figlio di Abdul Karim e Lydia, Madj, oggi ha sette anni ed è uno dei primi bambini nati in Cisgiordania con l’inseminazione in vitro. Tra le immagini ne ho scelto una che ritrae la mia mano che tiene uno smartphone. Sul display c’è la fotografia di Madj, che mostra il numero sette. Me l’ha inviata il giorno del suo compleanno, purtroppo con il Covid è stato impossibile raggiungerlo, ma ho voluto comunque inserire il selfie tra i contenuti del reportage. Per questi bambini compiere sette anni è importante, perché i prigionieri possono incontrare i loro figli solo fino ai sei anni, dopo non ci sarà più alcun contatto come avviene con le mogli”.
Le fotografie di Faccilongo sono tecnicamente valide, ma ciò che colpisce lo spettatore è la forza narrativa. “Credo che la storia sia fondamentale, ma bisogna anche saperla interpretare, evitando gli stereotipi. In Habibi l’amore ha un ruolo centrale, ci sono una serie di immagini apparentemente vuote che però raccontano momenti e stati d’animo”. Il lungo reportage di Faccilongo è destinato a diventare anche un documentario video, ma i tempi sono ancora acerbi. “L’idea è seguire uno di questi bambini fino a quando diventerà padre. È un lavoro pensato per il cinema, che mi auguro di portare a termine”.