Le migrazioni, un problema globale che tocca la coscienza dell’Occidente


 Il principio della solidarietà umana e civile deve puntare, più che all’assistenzialismo fine a se stesso, alla integrazione lavorativa e formativa, oltre che a risolvere il problema del flusso migratorio mediante programmati, razionali ed efficaci interventi risanatori delle vastissime aree di partenza dei tanti derelitti, nei secoli gravemente taglieggiate dall’ingordo colonialismo occidentale

di Augusto Lucchese

In questi ultimi tempi televisione e stampa cartacea hanno dato e seguitano a dare parecchio risalto alla cronaca dei continui arrivi di migranti e alle conseguenti convulse diatribe politiche riguardanti il grave e dilagante fenomeno dell’immigrazione che, inevitabilmente, fa rivivere taluni obbrobriosi rigurgiti di razzismo e di xenofobia esasperata.

Ma cosa si nasconde dietro tali odiosi atteggiamenti e comportamenti che, oltretutto, riportano alla memoria gli esecrabili delitti di massa consumati con spietata ferocia nel corso dei secoli, in vari momenti storici?

Molto tempo fa, agli inizi dell’800, Enrichetta Beecher Stowe ebbe a commuovere l’opinione pubblica mondiale descrivendo, nel suo famoso romanzo “La Capanna dello Zio Tom”, la vita dei martoriati negri d’America, la cui emarginazione s’è protratta sino a pochi decenni addietro. Esseri umani sradicati con violenza dalle proprie terre d’origine da mercanti ignobili e senza coscienza per essere impiegati come schiavi da altrettanto ignobili sfruttatori appartenenti ai cosiddetti Paesi civili. Stati Uniti, Brasile, Argentina e altri piccoli stati dei Caraibi, in primo piano.

Ancora oggi, negli Stati Uniti e in altri Paesi razzismo e xenofobia sono di casa e provocano ricorrenti e gravi scontri sociali, specie quando ci mette lo zampino l’aspetto incivile di specifici ambienti polizieschi.

Parecchie nazioni del mondo occidentale (Regno Unito, Francia, Belgio, Olanda, Germania, Portogallo, Spagna e, sotto taluni aspetti, anche l’Italia) dimostrano di avere la memoria corta, malgrado si fregino di un elevato livello di “civiltà”. Hanno dimenticato che erano proprio loro le ingorde fautrici del secolare colonialismo conquistatore, sfruttatore e schiavistico che ha impedito per secoli il razionale sviluppo dei cosiddetti Paesi del Terzo Mondo. Erano loro che ricorrevano alla forza e alla violenza per sottomettere intere popolazioni ed etnie, che impoverivano le economie locali asportando senza scrupoli materie prime, risorse locali, tesori artistici e archeologici. Erano loro che asservivano e schiavizzavano enormi masse di uomini.

Il principio della “autodeterminazione dei popoli”, annunciato dalla “Carta Atlantica” dell’agosto 1941 (dichiarazione congiunta di Roosevelt e Churchill, successivamente inserita, a decorrere dall’ottobre 1945, nell’atto istitutivo dell’’ONU), non si è rivelato come il toccasana delle gravi disfunzioni sociali lasciate in eredità dal citato deleterio colonialismo. Anzi, in non pochi casi, ha aggravato lo stato di arretratezza e di miseria di interi popoli finiti in mano a despoti locali che duramente impongono la loro parassitaria e drastica egemonia. I Paesi cosiddetti civilizzati, facenti parte dei due blocchi che oggi primeggiano nel mondo e ne condizionano la vita e il futuro, coprono e favoriscono spesso, per finalità di dominio economico e per motivi di controllo strategico, l’ignobile sistema di governo di tali despoti. E sono sempre loro, di massima, che non disdegnano di favorire il commercio di armi, esplosivi e strumenti di morte – d’ogni tipo e qualità – al fine d’incrementare i nauseabondi profitti dell’industria degli armamenti.

I Paesi di che trattasi dovrebbero vergognarsi oltre che per il loro passato colonialistico, per le secolari malefatte, per i crimini perpetrati contro l’umanità.

Gran parte del mondo occidentale odierno, narcisistico ed economicamente sclerotizzato, oltre che parecchio xenofobo per vocazione, non ha alcun titolo morale per assurgere al ruolo di difensore di usurpati poteri, di discutibili confini nazionalistici, di quelle norme internazionali da loro stessi prima calpestate senza ritegno.

Senza con ciò dimenticare che, probabilmente, ci vorranno secoli prima che il fenomeno della migrazione di massa possa essere adeguatamente metabolizzato.

Sia chiara, però, una cosa: razzismo e xenofobia non sono solo l’amaro frutto di pregiudizi riguardanti la diversità del colore della pelle, la diversa estrazione nazionale o culturale, il diverso credo religioso o politico. Sono anche una “forma mentis” che si nutre d’insofferenza verso chi è considerato – per pura diversità genetica – “non compatibile” con il proprio ambiente antropologico, con il proprio bagaglio culturale formativo, con il proprio tornaconto. A prescindere, poi, dall’asservimento a pregiudiziali “dogmi”, oltre che a talune obsolete “tradizioni” che spesso assurgono al ruolo di un vero e proprio costume di vita.

Parecchia gente è convinta – ovviamente a torto – di essere “superiore per destinazione”, sol perché appartiene a classi benestanti, ad ambienti professionali più o meno affermati, a caste politiche e militari di rilievo o, infine, a decrepiti ceti nobiliari. “Lei non sa chi sono io”, è il motto di tale diffusa categoria di individui.

Pur ritenendo indispensabile e necessario il controllo formale e sostanziale delle frontiere, al fine di contrastare gli arrivi clandestini di tanta gente, è da dire che il razzismo e la xenofobia non esprimono solo forme di avversione verso l’immigrato più o meno “sottosviluppato” ma, essenzialmente, sono il frutto di un retrogrado bagaglio culturale e morale.

Oggi, in un’epoca dominata dalla frenetica corsa al consumismo, in gran parte frutto dello sviluppo tecnico, in un’epoca in cui le frontiere si scavalcano con la velocità dei “jet” supersonici, sembra inverosimile che si possano gestire i rapporti sociali con metodi ed animo discriminatori.

A prescindere dai gravi e onerosi problemi scaturenti dalla immigrazione selvaggia e clandestina, sono ancora in molti, purtroppo, coloro che non riescono a sfuggire alla tentazione di imporre drasticamente le proprie vedute. Costoro, non hanno compreso che oggi nessuno è più disposto ad accettare manifestazioni d’intolleranza classista, tentativi di discriminazione, fanatismi o pregiudizi, retrive forme di ostentazione di ricchezza, magari legata a proventi malavitosi o a sciagurati fenomeni di corruttela.

Ferma restando la constatazione che, in materia di contenimento della immigrazione irregolare, le Istituzioni non sono state all’altezza del compito (la dialettica demagogica o l’incongruo protezionismo delle frontiere, non rappresentano certo l’antidoto al dilagante e pericoloso fenomeno), non è dato illudersi che basta adottare draconiane misure (e qui si torna al concetto dell’indiscriminato “razzismo”) contro la pur scomoda e diffusa invadenza dei cosiddetti “extra comunitari”.

Per altro verso, lo spirito umanitario dell’accoglienza diviene una prevalente manifestazione di ipocrisia sociale, pur se mascherata da principi di natura etica o religiosa.

Non è così che si dovrebbe gestire l’impatto con l’amorfa massa di uomini “sconosciuti” che giungono dal mare, che clandestinamente attraversano le frontiere geografiche, che fuggono – rischiando la vita – dalla miseria, dalle guerre fratricide, dalle purghe razziali, dalla inumana violenza di governi criminali e di capi fanatici.

Non basta chiudere gli occhi sul fatto che numerosi dei citati “extra comunitari” stazionino ai semafori, alle fermate degli autobus, nelle stazioni ferroviarie. È una complessiva situazione che tende al peggioramento, sia per il mancato rigido contenimento dei flussi migratori già nelle zone di partenza, che in funzione di una farisaica e strumentale adozione del concetto di “umanità”, di “accoglienza” e di “asilo politico”.

È peraltro inutile rimuginare la solita solfa della “espulsione” degli abusivi, quando si sa che è difficile e problematico perseguire in tempi brevi tale obiettivo. È chiaro, inoltre, che le enunciazioni demagogiche delle autorità preposte, l’assistenzialismo improduttivo e dispersivo (fertile terreno di caccia da parte di cosche e gruppi malavitosi) non servono più di tanto a risolvere il problema. Al riguardo sono solo sciocche e ingannevoli le pompose omelie che giungono dai più strani pulpiti.

Il principio della solidarietà umana e civile deve puntare, più che all’assistenzialismo fine a se stesso, alla integrazione lavorativa e formativa, oltre che a risolvere il problema del flusso migratorio mediante programmati, razionali ed efficaci interventi risanatori delle vastissime aree di partenza dei tanti derelitti, nei secoli gravemente taglieggiate dall’ingordo colonialismo occidentale. Aree che, frantumate in una miriade di stati e staterelli, sono spesso asservite al potere economico di multinazionali senza scrupoli. Aree che talvolta sono teatro di sanguinose guerre intestine fra etnie dominate da gruppi tirannici locali.

È anche da dire che la radicata e inveterata grettezza di quasi tutte le cosiddette “nazioni civilizzate” condiziona, purtroppo, l’opera dei vari organismi mondiali cui è demandato il difficile compito di fronteggiare il grave problema del sostentamento di centinaia di milioni di esseri umani.

Condizioni di vita sempre più difficili, desertificazione di vaste aree, rarefazione di beni essenziali – anche alimentari -, carestie, fame e sete, sono tutti aspetti preoccupanti che sovrastano l’odierno scenario  dell’accrescimento esponenziale della popolazione mondiale.