Le interviste fatte dagli altri (Libero – Elisabetta Sgarbi: Parlo coi morti e litigo con Vittorio)


La fondatrice de La nave di Teseo: «I miei genitori erano severi e avevano più attenzioni per mio fratello Oggi lui mi attacca il telefono in faccia ma sa che può contare su di me. Così scopro i talenti letterari»

Libero

marzo 2021

ALESSIA ARDESI

■ È tra le donne di cultura più conosciute d’Italia. È laureata in farmacia, come i genitori. Ha fiuto per i libri: con La nave di Teseo, la casa editrice che ha fondato con Umberto Eco, ha lanciato autori diventati famosi. È tagliente e asciutta. Ma ha passione vera per il suo lavoro e suo fratello, Vittorio Sgarbi. Parlare con lei di fede e Aldilà non è facile, però le sue suggestioni interrogano.

Elisabetta Sgarbi, da che famiglia viene?

«Mia madre, Rina, era ferrarese-romagnola; mio padre, Giuseppe, veneto. Tutti e due farmacisti».

Come erano i suoi genitori?

«Severi. Ma avrebbero fatto di tutto per i loro figli. Soprattutto per Vittorio».

Perché dice per Vittorio?

«Perché avevano un’attenzione particolare per lui. Io ero la secondogenita ed ero meno al centro delle loro attenzioni».

Quale tipo di educazione ha ricevuto?

«Rigore, lavoro, mai vittimismo, orgoglio».

Cosa aveva di speciale sua mamma?

«Allargava di continuo i limiti del possibile».

Cosa intende?

«Non considerava impossibile ciò che altri ritenevano impossibile. Riusciva a fare cose per altri inarrivabili e mi ha insegnato che bisogna credere fortemente di poter riuscire sempre».

E la figura di suo zio Bruno è stata centrale?

«Più per Vittorio che per me. Ma in generale, se sbagliavi, ti puniva facendotelo notare, anche pubblicamente. Era impietoso. Questo abitua a pensare prima di parlare e a dire “non lo so”, piuttosto che tirare a indovinare».

Quali sensazioni le ha suscitato il film Lei mi parla ancora di Pupi Avati, tratto dal libro di suo padre?

«Commozione, gioia, dolore, malinconia, meraviglia».

È vero che una volta, intercettando per caso una telefonata, sua mamma ha scoperto che il marito la tradiva?

«Sì. “Ci vediamo all’imbrunire” disse lui, al telefono della casa di Ro Ferrarese, a una sua

“amica”, che non si è saputo chi fosse. Mia madre viveva e lavorava a Milano, dove aveva vinto una farmacia: non si è mai capito come abbia fatto a intercettare questa chiamata di suo marito. Ma aveva poteri sovrannaturali».

Sua madre parlava con tutti, dai direttori dei giornali ai negozianti al dettaglio, a Cossiga, Confalonieri, Berlusconi. Come li conosceva?

«Seguiva ovunque mio fratello, trattava i suoi contratti. Però, poi, diventava amica di quegli interlocutori, o per lo meno un punto di riferimento. Così il rapporto iniziava a causa di Vittorio, ma finiva che chiamavano lei per qualsiasi cosa, anche senza riferimenti particolari a lui».

Lei crede?

«Forse».

Cosa vuol dire forse?

«Mi comporto come se credessi, anche se non è semplice credere in qualcosa di cui non c’è evidenza. In ogni caso dialogo con le persone che non ci sono come se fossero presenti».

Vale a dire?

«Ad esempio leggo nella cappella dei miei genitori i testi che scrive Vittorio sul Giornale o su Panorama, come facevano loro quando vivevano nella loro casa di Ro. Oggi dirò loro che Renato Pozzetto, che ha interpretato mio padre nel film

Lei mi parla ancora, per questo ruolo è candidato ai David di Donatello».

Ascolta la messa?

«A Natale, Pasqua e in occasione dei funerali».

Prega?

«Sì. Al cimitero, dove sono sepolti i miei genitori».

Ha paura di morire?

«Sì».

Ci pensa spesso?

«Sì».

Cosa ci accadrà dopo che saremo morti?

«Non lo so. Speriamo di essere ricordati almeno un po’».

Esistono il Paradiso, l’Inferno e il Purgatorio?

«L’inferno è vuoto, diceva qualcuno. E non per merito nostro, mi sento di aggiungere».

Lei andrà in…

«Paradiso, perché lì ci sono i miei genitori».

Ci sono autori o editori che spera di conoscere nell’Aldilà?

«No, perché non vorrei diventasse un luogo di lavoro».

Dove andranno o dove sono, tra Paradiso, Inferno e Purgatorio, Eco, Houellebecq, Einaudi, Bompiani, Feltrinelli, Mondadori, Rizzoli?

«Tutti in Paradiso. Penso che si triboli troppo sulla Terra per meritarci anche l’Inferno. Non mi sento di augurarlo a nessuno; e non sono nessuno per augurarlo a qualcuno. Scrittori e editori fanno il bene dell’umanità. E poi costano poco per il bene che fanno».

Suo fratello?

«In Paradiso, convintamente».

A proposito, come sta Vittorio?

«Ha già detto tutto quanto c’era da sapere. Non difetta in comunicazione. La mia amica Laura Valente, presidente del Madre di Napoli, mi ha scritto: “Vittorio supererà anche questa. Grazie al suo carattere e al suo spirito”».

Qual è la più bella rappresentazione dell’Aldilà, a parte Dante?

«Il fondo oro dei bizantini, o dell’abside della Sinagoga di Trieste».

Milton ha scritto che è meglio regnare all’Inferno che essere schiavi in Paradiso. È d’accordo?

«Detto così, non molto».

Perché?

«Perché l’Inferno è vuoto. E non si regna sul vuoto. L’inferno è una parola troppo facile, “un bersaglio troppo semplice” per dirla con Brodskij».

Quando gli chiesero che cosa è l’Inferno, Sartre rispose sono gli altri. È d’accordo?

«L’Inferno siamo noi stessi. Non gli altri. Ma Sartre, nella pièce che cita, mostra di saperlo bene. E comunque è anche vero che “comunicare fa male”, come diceva Enrico Ghezzi. Quindi anche la frase che lei cita, per come la cita, ha un fondo di verità».

Crede negli angeli custodi?

«Credo di sentire intorno i miei genitori. Ma il non vederli l’attimo dopo è un dolore più intenso».

Rilke ha scritto che ogni angelo è terribile perché annuncia comunque una responsabilità, un dono di cui ci dovremmo fare carico…

«C’è quel racconto nei Diari

di Kafka in cui l’angelo cade e rimane impigliato e non riesce più ad andare via. È una figura molto bella della iconologia occidentale e orientale. Molto elegante. Bisognerebbe educare alla bellezza (terribile) degli angeli. È vero che farsi carico dei doni è difficile».

Come scova il talento dietro un manoscritto che le portano?

«Lo leggo. E provo a non sbagliare».

Ha mai pensato che nel talento letterario ci sia qualcosa di “soprannaturale”? Un dono divino?

«Certamente. C’è qualcosa di innaturale nel genio artistico. E il genio vale più del talento: è più limitato ma più grande».

Come è stato lavorare con Eco?

«Educativo».

In che senso?

«Era molto rigoroso, pretendeva moltissimo, ma sapeva divertirsi in quello che faceva».

Ha fondato l’anno scorso una casa di produzione musicale e cinematografica: una nuova passione?

«Si chiama Betty Wrong. Il nome viene dal titolo di una canzone di David Bowie con i Tin Machine; fu Morgan a suggerirmi questo nome. Ma, soprattutto, è una traduzione libera di Elisabetta (Betty) Wrong (Sgarbi, Sbagliata)».

Perché sbagliata?

«Perché era una via traversa rispetto alla mia vita editoriale. Ma le vie traverse a volte riservano belle sorprese».

È stata anche a Sanremo con il gruppo che produce, gli Extraliscio…

«Sono stata brava e fortunata nel trovare e nel credere in un gruppo così straordinario. Ed è stato bravo e coraggioso Amadeus a volerli a Sanremo. Sul palco sono stati straordinari e mi sono sentita orgogliosa».

Come nasce l’idea di un libro?

«Bisogna chiederlo all’autore. Poi ci sono quelli legati a una occasione, che possono nascere da committenze precise. Ma, insomma, direi che la genesi di un libro sta nella mente (infinita) di chi lo scrive».

È difficile fare cultura oggi?

«Come sempre. Chi dice che è peggio ora di allora, sta remando contro la cultura e, in fondo, non la ama davvero e cerca un alibi».

La permanenza forzata in casa in questo ultimo anno ha portato gli italiani a leggere di più?

«Forse. Ma soprattutto ha impoverito le librerie fisiche a favore dell’e-commerce. Cosa che non va ovviamente giudicata. È un fatto: però genera conseguenze, che dovrebbero essere analizzate. È certo che le chiusure hanno messo a dura prova la nostra resistenza mentale».

Che edizione sarà la Milanesiana di quest’anno?

«Dopo quella dell’anno scorso dedicata alla Resistenza, direi ancora di Resistenza. Con un filo di stanchezza e speranza in più. E faremo “un passo in avanti”. Questo è enigmatico ma vuol dire una cosa precisa. E qui mi fermo».

Ha paura del Covid?

«Sì, assolutamente. Ma non mi ha paralizzato e la paura non è il contrario del coraggio. Ha a che fare con il desiderio. E penso che, con paura, coraggio e desiderio, dovremmo riaprire cinema, teatri e musei. Bianca Luce Nera».

Le piace Papa Francesco?

«È andato a trovare Edith Bruck, a casa sua, dopo avere letto il suo libro Il pane perduto, che ho pubblicato io. Vuole che non mi piaccia?».

C’è un Pontefice a cui è legata?

«Trovo il gesto di Ratzinger così misterioso e profondo, enigmatico, che me lo rende molto prossimo».

Da piccoli come era il rapporto con suo fratello? È vero che la portava nei cimiteri per metterle paura?

«È vero. Mi faceva salire sul tubo della sua bici, mi ingannava dicendomi che saremmo andati da un’altra parte e invece mi portava al cimitero. E poi mi faceva credere che dalle crepe del terreno uscivano fantasmi. Lui è il fratello maggiore, e oltretutto è sempre stato Vittorio Sgarbi. Giocavamo anche agli indiani: lui era il capo indiano, io l’indiano semplice».

E ora? Litigate?

«Litighiamo, certo. Anche se non sono certa sia la parola giusta: ci attacchiamo il telefono in faccia (più lui, in realtà). Ma lui sa che può contare su di me per qualsiasi cosa importante. E viceversa. Il legame c’è».