Per farsi una idea più compiuta circa il tema della autonomia differenziata vale la pena avere contezza del cosa prevede a riguardo la nostra Costituzione.
Art. 116, comma 3, Cost. alla mano, si annota come limitate ma rilevantissime materie (es. istruzione e ambiente) ascritte alla potestà legislativa statale esclusiva – nei cui riguardi la competenza a legiferare è attribuita al solo Stato – e tutte quelle oggetto di potestà legislativa ripartita – per le quali alla legislazione dello Stato è rimessa «la determinazione dei principi fondamentali» mentre alle Regioni la legiferazione del relativo ambito materiale non coperto dai principi statali e da esplicare nel rispetto di essi – possano essere in astratto assegnate alle Regioni a statuto ordinario. Questo deve avvenire con legge dello Stato approvata a maggioranza assoluta dei componenti delle di Camera e Senato previa intesa fra il Governo e la Regione interessata. È su impulso di quest’ultima che, sentiti gli enti locali, può avere avvio l’atto di iniziativa. Risultato del prestabilito procedimento: una legge rinforzata difficilmente modificabile, che il Governo, tramite la proposta che si fa strada, vorrebbe sottrarre all’emendabilità delle Camere, chiamate ad esprimersi con atti di indirizzo e controllo (mozioni e risoluzioni) e con sola deliberazione finale. Un prendere o lasciare, insomma, alla stregua della prassi procedurale seguita per le intese sottoscritte con le confessioni acattoliche. Il tutto, con relativo innesco di un processo di decostituzionalizzazione a proposito dell’impianto di riparto delle attribuzioni legislative Stato-Regioni.
Laddove – e come sembra – l’odierno approccio al 116 terzo comma sia preordinato a forzarne lettera e fondamento, con pieno sfruttare del suo imponderabile portato, il potere d’intervento legislativo dello Stato, tanto se operante sul piano dell’esclusività quanto in termini di concorrenza, verrebbe fortemente dimidiato, in ragione di un sistema di blocchi di materie rimodulabili a seconda delle quote di competenze accordate alle Regioni richiedenti. Ne potrebbe scaturire, di fatto, un apparato di dislocazione delle materie geometricamente imperfetto, eretto su delle asincronie di struttura dovute a quanto negoziato sul versante dei singoli accordi. Ciò che preoccupa, dunque, è per prima cosa l’irrazionalità dell’esito, a tenore della estrema dilatazione del numero di materie (praticamente tutte nel caso dei preaccordi Lombardia e Veneto) su cui incombono le richieste di trasferimento.
Ma il progetto di differenziazione delle autonomie non dovrebbe degradare ad acritica convalida delle pretese di parte, salvo il dover fare i conti con l’inesorabile frazionamento delle politiche pubbliche, le quali – è il caso di sottolinearlo – per avere efficacia esigono l’ottimo dei bacini di utenza e una adeguata ampiezza dimensionale, verso cui, a ben guardare, anche quella nazionale può apparire talora insufficiente. Cosa farsene, ad esempio, di eterogenei regimi normativi in materia di infrastrutturazione e governo delle grandi reti di trasporto fra Regioni insistenti su una medesima dorsale appenninica ovvero di regole regionali diversamente protese in materia di produzione “nazionale” dell’energia? Occorrono, casomai, l’agire accorto e la visione unitaria di chi, con assennatezza, è conscio di intervenire sui congegni di una collettività organizzata avendo cura dell’insieme. Sulla scorta, cioè, di quei principi supremi di unità e indivisibilità della Repubblica che presiedono al sistema delle autonomie (art. 5 Cost.).
A rilevare, v’è poi un ulteriore precetto che lo stesso art. 116, comma 3, Cost. pone, elemento qualificante ai fini della esatta ricostruzione della cornice giuridico-costituzionale in cui inserire l’autonomia differenziata e a cui la relativa postura applicativa dovrebbe tendere. Sembra, tuttavia, che lo schema di disegno del Governo intenda ignorare, ergo alterare, i nessi costituzionali della vicenda. Per essere più chiari, perché le «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» possano essere soggette a materiale inveramento, l’art. 116, comma 3, Cost. esige che il processo di devoluzione delle materie avvenga «nel rispetto dei principi di cui all’articolo 119» della Costituzione. Importa, cioè, uniformarsi ai principi regolativi di finanza regionale validi per tutte le Regioni a statuto ordinario, per come fissati nella loro logica conseguenzialità. Del resto, prima ancora delle obiezioni procedurali, la questione di fondo risiede nella tenuta della finanza pubblica[1]. Vale a dire, sul come dovrebbe finanziarsi il regionalismo asimmetrico tratteggiato dall’esecutivo, attese le carenze attuative esibite dall’art. 119 Cost. post formulazione 2001.
Un chiarimento preliminare: sembrerebbe una ovvietà, ma il disporre di fondi sufficienti per il raggiungimento di fini programmati è aspetto consustanziale all’effettivo esercizio di ogni potere. Il che, beninteso, vale anche per poteri di tipo legislativo, quindi, a maggior ragione, per le nostre Regioni. Per tali unità politico-territoriali l’assunto è, a rigore, praticabile a mezzo della autonomia finanziaria, tale da dispiegare, con Titolo V riformato, la propria efficacia tanto in entrata (potere di stabilire entrate proprie) quanto in uscita (potere di finanziare le proprie funzioni). Disponendo di potestà legislativa, le Regioni, oltreché applicarli, ben potrebbero istituire e disciplinare tributi regionali propri, sia pure in conformità a quei «principi di coordinamento e di finanza pubblica» da stabilirsi previamente a livello centrale (art. 119, comma 2, Cost.). Ma, crisi finanziarie globali e conseguenti misure congiunturali di quadratura dei conti hanno nei fatti arrestato la fase di messa a terra del cosiddetto federalismo fiscale (l. n. 42 del 2009), stando lì a evidenziare come anche per le Regioni la libera determinazione finanziaria resta allo stato delle cose limitata all’autonomia di spesa.
Ma non è tutto. Ai fini del proprio finanziamento e per escludere l’agire della finanza derivata, le Regioni a statuto ordinario, oltre al far valere tributi propri, disporrebbero (in teoria) non più e semplicemente di quote di tributi erariali, come nella versione dell’art. 119 Cost. previgente alla l. cost. n. 3 del 2001, ma di vere e proprie «compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al proprio territorio» (art. 119, comma 2, Cost.). Non già, pertanto, il trattenere a livello territoriale il volume complessivo dei ritorni per le tasse in loco pagate, in nome di una rudimentale ed egoistica visione del criterio di assegnazione delle risorse. Ma il concorrere pro quota alla generazione del gettito da tributi riscossi sul territorio, con riversamento al centro di un più che sufficiente ammontare assistito da correttivi costituzionali a garanzia di funzionamento del meccanismo.
Tant’è vero, che considerata la grande sperequazione di risorse che verrebbe ad emersione per effetto dell’impari distribuzione dei redditi pro capite per area regionale di residenza (i divari reddituali nord-sud sono a tutti noti), da cui la differente capacità fiscale per abitante a seconda del territorio regionale di riscossione, l’intervento del legislatore costituzionale, operando in sequenza, ha finito con: 1) l’ascrivere alla competenza legislativa statale la determinazione dei LEP ovverosia «dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» (art. 117, comma 2, lett. m), Cost.); 2) l’aggiungere un nuovo terzo comma all’art. 119 Cost. in forza del quale «La legge dello Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante»; 3) l’inquadrare la disciplina della «perequazione finanziaria» entro l’insieme delle materie riservate alla potestà legislativa dello Stato (art. 117, comma 2, lett. e), Cost.); 4) il disporre che, una volta misurata la compartecipazione al gettito e dato corpo all’operazione perequativa in rapporto alle risultanze di calcolo circa la capacità fiscale per abitante, le risorse così stabilite debbono (o almeno dovrebbero) consentire alle Regioni e agli enti territoriali autonomi «di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite» (art. 119, comma 4, Cost.); l’affermare, in una logica di sviluppo, coesione e solidarietà, il bisogno per parte statale di «rimuovere gli squilibri economici e sociali» là dove sussistenti, destinando risorse aggiuntive ad hoc in favore di determinate Regioni (art. 119, comma 5, Cost.).
Questa, in sintesi, la descrizione del sistema di finanziamento regionale per come dovrebbe funzionare e non funziona. Ed è proprio alla sua luce che vengono in considerazione i rischi di una alterazione stabile e profonda degli equilibri di finanza pubblica in rapporto alla linea politico-legislativa mediante cui si sta procedendo.
Per comprenderne il perché, occorre partire dal dato fattuale secondo cui, come anticipato, la legge sul federalismo fiscale non è stata per la sua più gran parte attuata. Sicché, la modalità tecnica di finanziamento regionale corrisponde a quella anteriore al 2001, con stanziamenti di derivazione statale. Ciò a significare che risulta tuttora in auge la cosiddetta spesa storica, con dipendenza dal quantum speso in passato: un criterio condizionato dalle determinazioni politiche apprestate in ambito regionale e che, anche in questo caso, non ha nulla a che vedere con l’equità.
Morale della favola, l’inattuazione regna sovrana. Ed è qui che si colloca il “testo Governo”: l’attuale impostazione seguita è tale da posporre l’efficacia di buona parte delle richiamate prescrizioni costituzionali, occupandosi, intanto, di normare la differenziazione delle autonomie, per poi recuperare, per quanto possibile, la prescrittività dei principi di finanza inizialmente pretermessi.
Trascuratezza e fretta non appaiono affatto neutrali. Certo, si potrebbe eccepire che, con l’ultima versione del testo, la determinazione dei LEP assurga a fattore condizionante perché si possa dare luogo alla materiale attribuzione di funzioni riguardanti quelle «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» attinenti a diritti civili e sociali. A parte il fatto, però, che il disegno di legge in questione tende ad eclissare il ruolo del Parlamento su di un punto delicatissimo, abilitando l’individuazione dei LEP a mezzo di DPCM, esso assicura alla procedura di perfezionamento delle intese e di correlativo trasferimento delle risorse una corsia preferenziale. Il che sembra ancor più evidente nelle ipotesi di previsione del fondo perequativo e degli interventi speciali di coesione (art. 119, commi 3 e 5, Cost.), per le quali l’assegnazione delle risorse si materializzerebbe soltanto a margine del sovrappiù di finanziamento concesso alle Regioni avviate alla differenziazione. Ciò, con opacizzazione dei risvolti positivi dell’azione redistributiva e con fuga in avanti delle Regioni più ricche, le quali, una volta intestato, avrebbero vita facile nel sottrarre il budget aggiuntivo dall’algoritmo della perequazione.
Un ultimo aspetto su cui riflettere. La determinazione delle risorse necessarie a fronteggiare la maggiore spesa che le Regioni interessate dovranno sostenere in virtù delle nuove attribuzioni legislative avverrà sulla base delle valutazioni compiute da una commissione paritetica Stato-Regione. Di sicuro, v’è che l’integrale finanziamento delle funzioni attribuite verrà trainato dalle «compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturato nel territorio regionale», le cui modalità saranno individuate in via convenzionale. Ciò che rivela, dunque, è la rinuncia all’esercizio di un “diritto a tassare”, benché, come detto, formalmente riconosciuto alle Regioni dalla Carta costituzionale. Trattasi di una parte decisiva dell’art. 119 Cost. che – e si capisce – non si ha convenienza a declinare: molto meglio nascondersi dietro il potere impositivo statale, piuttosto che stabilire e applicare tributi propriamente regionali (quindi impopolari) onde reperire proventi tributari supplementari da destinare al loro reimpiego. Ne verrebbe una autosufficienza finanziaria vera e responsabile. Ma, a quanto pare, sono le scorciatoie a sedurre i “governatori” di casa nostra, dimostrandosi soltanto interessati ad agguantare una fetta più grande di una torta destinata a non bastare per tutti.
[1] C. PINELLI, Confusione o imbroglio sull’autonomia differenziata? in Mondoperaio, Roma, 2023, n. 1, 3-4.
Fonte: Mondoperaio