L’AUTOCOMPLOTTO DI MELONI


Le esondazioni delle procure sono una cosa seria. Vera. Evocarle quando non esistono è segno di debolezza. Perché il vittimismo del governo, sulla giustizia, è un preoccupante manifesto politico: inizia la stagione degli alibi

Valerio Valentini

When in trouble, go complotto. Giorgia Meloni evoca il complotto. Non lo dice direttamente, è ovvio, lo fa dire alle fonti di Palazzo Chigi, lo fa dire ai parlamentari a lei più vicini, lo fa dire agli esponenti del governo più in sintonia con la sua agenda politica. Ma il dato è questo ed è evidente. La presidente del Consiglio, come avete visto, crede che un pezzo importante della magistratura del nostro paese stia facendo campagna elettorale contro il governo, per indebolirlo in vista delle europee. E a conferma di questa tesi indica alcune pistole fumanti. A: l’inchiesta contro Daniela Santanchè, della cui formale esistenza gli organi di stampa sono venuti a conoscenza prima che la diretta interessata ne venisse ritualmente informata attraverso un avviso di garanzia. B: l’inchiesta sul sottosegretario Andrea Delmastro, contro il quale vi sarebbe un accanimento da parte della magistratura per via di una richiesta di archiviazione della procura non confermata dal gip. C: l’inchiesta contro uno dei figli di Ignazio La Russa, indagato per violenza sessuale. Nella storia recente del nostro paese, come Giorgia Meloni dovrebbe sapere, gli assedi giudiziari hanno pesantemente condizionato la traiettoria della vita politica (chiedere per credere cosa hanno passato in questi anni la famiglia Craxi, la famiglia Berlusconi e la famiglia Renzi). E proprio per questo, le storie di cui parliamo oggi – il cui lato giudiziario è forse quello meno interessante – appaiono essere il segno della presenza più di un conclamato autocomplotto del centrodestra che di un clamoroso complotto della magistratura. Un autocomplotto che segnala la tendenza innata da parte di Giorgia Meloni a scaricare su alcuni famigerati agenti esterni quelli che sono invece problemi dovuti a fattori squisitamente interni. La premier forse non se ne è accorta ma il problema del caso Santanchè non è legato alla presenza o meno di un’indagine contro la ministra. E’ legato a qualcosa di più: al fatto che Santanchè non ha ancora dato risposte soddisfacenti sul mancato pagamento della liquidazione ad alcuni dipendenti, sulla circostanza che una dipendente sarebbe stata messa in cassa integrazione a zero ore a sua insaputa e sulla presenza di alcuni passaggi societari della sua Visibilia poco trasparenti ben documentati non da un’inchiesta giudiziaria ma da un’inchiesta giornalistica.
Chiara Gribaudo ne è convinta: “Il vagheggiare complotti da parte dei magistrati, oltre che irrispettoso è anche patetico: è l’estremo rifugio di chi è in affanno sull’agenda di governo e cerca alibi”. E certo nelle parole della vicepresidente del Pd ci sarà la malizia di chi piccona dall’opposizione, ma qualche verità quella malizia deve coglierla, se riflette i dubbi anche degli alleati della stessa Meloni.
Matteo Salvini, alle prese anche ieri con gli strascichi del processo Open Arms a Palermo, si guarda bene dal commentare, figurarsi dall’esprimere solidarietà. Pensa all’adunata di Pontida, convocata per il 17 settembre, e alla festa leghista di Cervia, a fine luglio. “Piuttosto: davvero conviene pestare la coda al cane che dorme?”, sbuffano nel Carroccio, temendo che l’apertura unilaterale delle ostilità verso le toghe sia foriera di eventuali ritorsioni. Figurarsi allora qual è il clima in Forza Italia, dove ancora se li ricordano gli sfoghi con cui il Cav., nei giorni della formazione del governo, raccontava del trattamento ricevuto da Meloni, quel suo impuntarsi, in romanesco verace, sul fatto che l’assegnare Via Arenula a un esponente azzurro avrebbe riaperto la stagione dei dissidi coi pm: “Ah Sirvio, se ’o metti te er ministro daa Giustizia nun la famo più ’sta riforma. Te dicono che te voi fa’ i fatti tua”. Ci ridono ancora, ma è un riso amaro, i deputati forzisti, alla buvette di Montecitorio. “La verità è che le riforme non si fanno sulla spinta di accidenti di cronaca, ma perché le abbiamo promesse agli elettori e le dobbiamo al paese”, ragiona Pietro Pittalis, dando voce a un dubbio diffuso in verità anche dentro FDI: e cioè che il brandire l’ipotesi della separazione delle carriere come una ritorsione verso i magistrati non sia il miglior viatico per arrivare alla meta. E per questo Alessandro Cattaneo lancia un avvertimento: “Credo che l’agenda del governo sia molto densa: continuiamo a concentrarci sulle cose da fare. Riaprire anacronistiche guerre con la magistratura rischia di essere un diversivo poco utile”.
Se insomma l’intemerata contro le toghe di Palazzo Chigi, oltre a riflettere una paranoia reale della premier, doveva essere una mossa per ricompattare una maggioranza un po’ sfibrata, l’effetto sortito sembra opposto. L’avventatezza meloniana ha semmai rivelato l’esistenza di una carie, di un tarlo che rode la destra dal suo interno. E così c’è chi, a Via della Scrofa, si chiede se la delega ai Servizi non fosse stata attribuita anche per questo, ad Alfredo Mantovano, per la sua profonda conoscenza delle dinamiche più perverse delle procure. E non basta. Perché il destino periclitante di Santanchè, che pure la capa di FDI considera intoccabile (“Non si cambia un ministro perché ce lo chiedono De Benedetti ed Elkann”, intignano i collaboratori di Donna Giorgia), alimenta comunque voci di rimpasto, e dunque quelle inevitabili convulsioni fatte dalle ambizioni di chi potrebbe sostituire la ministra del Turismo, e dalle paure di chi teme che potrebbe precipitare pure lui nella ridefinizione degli assetti di governo.
La Russa, poi, è un caso a parte. Ma forse il più grave. E non solo per gli eventuali sviluppi dell’accusa di stupro mossa a suo figlio Lorenzo Apache da una ragazza di 22 anni, ma per la consueta incontinenza verbale con cui il presidente del Senato s’è affrettato a commentare la faccenda. “Lascia oggettivamente molti dubbi il racconto di una ragazza che, per sua stessa ammissione, aveva consumato cocaina prima di incontrare mio figlio. (…) Di sicuro lascia molti interrogativi una denuncia presentata dopo quaranta giorni”, ha scritto, tra l’altro, La Russa, in una nota diramata ieri. Guadagnandosi le accuse di Elly Schlein. E ci sta. Ma pure i mugugni di chi, in FDI, ricorda che fu proprio Meloni, due anni fa, ascoltando il vaniloquio di Beppe Grillo a difesa di suo figlio, coinvolto in un caso apparentemente analogo, a dirsi sorpresa: “Mi ha colpito il modo in cui Grillo ha minimizzato un tema pesante, come quello della presunta violenza sessuale”. E insomma è inevitabile che in queste ore le dichiarazioni imbarazzanti di La Russa vengano rimesse in fila dai suoi avversari interni (ministri compresi) che, non a caso, gli rinfacciano anche l’aver voluto a ogni costo promuovere Santanchè nell’esecutivo: e quindi l’incidente diplomatico con Sergio Mattarella durante il caso Ocean Viking, e quindi le raggelanti dissertazioni storiche su Via Rasella e quel che ne seguì. Qualcuno, in FDI, ricordando il 25 aprile, azzarda perfino una battuta: “Se Ignazio facesse il presidente del Senato come tutti prima di lui, se smettesse di dichiarare a ogni pie’ sospinto, per Giorgia sarebbe una Liberazione”.

Fonte: Il Foglio