L’AMERICA DEI DESTINI INCROCIATI


Di Walter Veltroni

” Il passo e la nuova sfida Se il presidente decidesse di rinunciare, i democratici potrebbero scegliere con nuove procedure un nuovo candidato
George Washington, nel primo discorso inaugurale, disse che la democrazia negli Usa era «un esperimento affidato alle mani degli americani». E molto tempo dopo, solo due anni prima di essere ucciso, John Kennedy pronunciò parole che stupirono: «Prima che il mio periodo di carica finisca dovremo fare nuove prove per dimostrare se una nazione organizzata e governata come la nostra potrà durare. Il risultato non è affatto certo». Mai, come in questo periodo, che possiamo incorniciare tra l’assalto al Campidoglio e il dibattito di fine giugno tra i due candidati, è sembrato che «l’esperimento» facesse fatica a «durare». Che quella crisi della democrazia americana della quale Biden ha responsabilmente parlato durante la sua presidenza, si potesse materializzare.
Le contorsioni dolorose del partito democratico di questi giorni, un ulteriore inedito nella storia della politica americana, in realtà confermano la crisi della più grande democrazia del mondo, quella squadernata negli imbarazzanti momenti della discussione, davanti agli occhi del mondo, tra un galantuomo in evidenti e irreversibili difficoltà legate all’età e un magnate spregiudicato e aggressivo, ignaro o avverso alla sostanza della democrazia tanto da sostenere, in più occasioni, «O vinco io o sarà un bagno di sangue». Un uomo del quale il suo mentore e ispiratore, ora destinato al carcere federale, Steve Bannon, disse, quando Trump fu eletto nel 2016: «Era il nuovo presidente degli Stati Uniti. E non aveva la più vaga idea di cosa ciò implicasse».
Nel pieno di grandi conflitti, in Ucraina e nel Medio Oriente, l’america appare fragile, indecisa, esposta al rischio di un cambio sostanziale di regime, verso le nuove forme di ipocrita «democratura» che nascondono il volto digitale dell’autoritarismo.
I leader dei Paesi Nato hanno fatto trapelare la preoccupazione per le intenzioni americane di disimpegnarsi, in caso di vittoria repubblicana, dall’alleanza atlantica e, per converso, Putin non smette, ormai esplicitamente, di auspicare una sconfitta democratica alle elezioni di novembre.
In tutto questo il partito democratico è, a tre mesi dal voto, sostanzialmente senza candidato. Ogni giorno si moltiplicano posizioni di accentuata distanza da Biden, motivate dalle sue evidenti difficoltà, e al tempo stesso il presidente uscente nega con residuo vigore la possibilità di farsi da parte. Se si candiderà, nonostante il disagio crescente dei leader del partito e degli elettori, la campagna sarà concentrata sulle sue gaffes, sui suoi sbagli di nomi e di date, sulla fragilità della sua deambulazione. Se dovesse perdere — cosa che oggi sembra assai possibile solo a guardare gli ultimi sondaggi che assegnano a Trump la maggioranza degli Stati in bilico — Biden si assumerebbe, proprio in virtù dei rischi che lui stesso ha denunciato, una responsabilità enorme che finirebbe col cancellare quella storia grande di servitore dei suoi valori della quale ha parlato, con sincerità e amicizia, George Clooney nella sua lettera sul New York Times.
Biden non rinuncia, ma cresce la pressione per farlo rinunciare, una pressione che viene dal basso e dall’alto, che coinvolge i donatori e i deputati, i leader e il mondo democratico che ora per Biden viene equiparato alle élite. In questa contraddizione è possibile una vittoria dei repubblicani che potrebbe portarli a controllare Camera e Senato.
Se Biden, con un gesto che sarebbe coerente con la sua splendida carriera politica, decidesse di rinunciare, consapevole che la battaglia contro l’usura del tempo e i problemi di salute, è la più difficile da vincere, i democratici potrebbero scegliere con procedure originali un nuovo candidato. Può essere la vice presidente Harris, il che garantirebbe una manifesta continuità con l’amministrazione e sarebbe forse più facile da accettare per Biden, o uno dei due governatori più forti: Gretchen Whitmer del Michigan — uno degli Stati decisivi — donna forte, competente, autorevole o Gavin Newsom che però viene da una parte dell’america, la California, che difficilmente riesce a farsi «nazione».
Quello che accadrebbe, con la scelta di un nuovo candidato, è che Trump apparirebbe immediatamente una figura del passato, figlio di una stagione che sembrerebbe al declino. Un esponente della nuova generazione dei democratici prenderebbe il dominio dei media e dell’attenzione pubblica, genererebbe nuovo entusiasmo e, se potesse contare sull’appoggio di Clinton, Obama e Biden, si presenterebbe come l’erede di quella originale e affascinante alchimia politica che, a partire da Roosevelt e Kennedy, fa vincere i democratici quando essi si presentano con la capacità di unire, per usare un’espressione europea, sinistra e centro.
Harris e ancor più Whitmer incarnano pienamente quella ispirazione.
Ma non c’è molto tempo. Un mese alla convenzione, tre alle elezioni del primo martedì di novembre.
Sarebbe bene che decidessero ora, d’intesa, almeno pubblica, con Biden. Prolungare questa incertezza è benzina per la campagna di Trump.
Se Biden non dovesse accettare questa ipotesi, allora che finiscano le discussioni e si uniscano per una campagna che sarebbe tra le più difficili mai svolte. Non c’è tempo, ormai.
Un nuovo candidato sarebbe una sferzata di energia e motivazione per i democratici e forse renderebbe più difficile anche la fastidiosa e ambigua candidatura di Robert Kennedy Jr. Una nuova candidatura sarebbe la vera novità di questi mesi.
Perché vale quello che disse Lincoln a proposito della libertà americana: «Quel tempio cadrà, a meno che noi non dotiamo l’edificio di nuovi pilastri, tratti dalla solida cava della fredda ragione».

Fonte: Corriere della Sera