L’AMBIENTE E I COSTI DEI RITARDI


Di Ferruccio de Bortoli

” I benefici Le imprese più impegnate nella transizione digitale ed ecologica guadagnano in produttività
Nessuno può ragionevolmente negare gli effetti, anche disastrosi in questi giorni, del cambiamento climatico. Ma è un fatto che la transizione energetica abbia assunto un ritmo più lento. Forse era inevitabile che andasse così. Il Green deal europeo, con i suoi ambiziosi obiettivi di decarbonizzazione, era già stato messo in discussione dalla stessa Ursula von der Leyen nella campagna elettorale per le Europee. Per non perdere consensi, soprattutto a destra. La nuova commissione sarà più accorta. E non stupisce che nell’ultima assemblea della Confindustria l’argomento sul quale si sono trovati più concordi il leader degli imprenditori, Emanuele Orsini, e la premier Giorgia Meloni sia stato proprio il rigetto del Green deal. Sorprende invece il sollievo pressoché generale che questa presa di posizione ha suscitato come se molti avessero dovuto subire i diversi programmi europei perché costretti da una sorta di conformismo verde. Vittime della trappola del politicamente corretto. L’italia poi la detestata legge sul clima l’ha pure votata. Ora sono in molti a sperare che il cammino sia più prudente e che il limite del 2035 per la fine della produzione di motori endotermici possa essere opportunamente spostato più in là. La proposta italiana comprende un anticipo della revisione, prevista per il 2026, del regolamento sulla riduzione delle emissioni.
Le preoccupazioni sull’impatto che una transizione accelerata, con una elettrificazione spinta, avrebbe sull’industria europea, sono del tutto giustificate. La Cina produce a costi infinitamente più bassi, in particolare nel fotovoltaico, e finirebbe per distruggere parte della capacità industriale europea. La scelta dell’elettrico nell’auto — lo dimostra la crisi di Volkswagen — è fonte di qualche ripensamento per l’incapacità di produrre modelli competitivi con quelli di Pechino. La contraddizione che illustra plasticamente la sindrome industriale europea è quella degli incentivi all’elettrico e della contemporanea richiesta di dazi contro le auto cinesi.
Quello che né Meloni, né Orsini e i tanti avversari del Green deal dicono è quali sarebbero i costi di un ritardo europeo, e soprattutto italiano, con un mondo che inevitabilmente, prima o poi, andrà da quella parte. O ci si illude che si stia vivendo una sorta di ubriacatura ideologica verde? Produrre emettendo gas serra sarà sempre più costoso. Le aziende innovative — anche in settori complessi da decarbonizzare come per esempio l’acciaio — sono decisamente più avanti della loro rappresentanza sindacale. Sanno che la competitività, l’accesso al credito, l’appartenenza a filiere internazionali, dipenderanno sempre di più dalla sostenibilità della loro produzione. Tutti gli studi dimostrano che le imprese più impegnate nella transizione digitale ed ecologica guadagnano in produttività. Certo, c’è un 30 per cento di aziende — lo certifica l’istat — che non ne vuole sapere. Hanno il loro peso politico e sindacale.
Non è questa l’unica contraddizione. Ve ne sono tante altre che per comodità rimuoviamo. Tutti a parole sono paladini dell’ambiente. A patto che ciò non metta in discussione i propri interessi e le proprie abitudini. Anche quella di non curarsi troppo dei consumi d’energia (per esempio nel digitale). È la schizofrenia che accompagna i cittadini del benessere. La transizione energetica è anche una grande prova di educazione civica. Non riguarda solo gli Stati e le imprese. Riguarda tutti. Ma non ne parliamo. E poi c’è il rischio di una inutile e dannosa contrapposizione ideologica. Tra scettici se non negazionisti, da una parte, rinfrancati purtroppo dal ripensamento europeo, e ambientalisti puri e duri dall’altra. L’argomento è spinoso. Anzi è quasi un tabù. Senza il nucleare, ovviamente di nuova generazione — che non piace a gran parte degli ambientalisti — gli obiettivi di decarbonizzazione sono al momento irraggiungibili. Noi già importiamo elettricità da Francia e Svizzera ed è come se avessimo tre centrali nucleari italiane Oltralpe. Ipocriti.
Gli investimenti nelle rinnovabili sono indispensabili e per fortuna li stiamo accelerando, ma dobbiamo uscire da quella che per semplicità chiamiamo la sindrome sarda, Regione peraltro a guida del centrosinistra, che non vuole né pannelli né pale. Le tante piogge, soprattutto primaverili, hanno fatto i danni che conosciamo ma hanno anche innalzato la produzione idroelettrica grazie alle dighe, senza le quali non avremmo avuto il miracolo economico del secolo scorso. Oggi però non le vuole nessuno (si veda il caso del progetto nella valle del Vanoi, in Veneto). Sono belle? Ovviamente no. Come sono brutte le pale, le distese di pannelli e i tralicci, ai quali però non facciamo più caso. Le rinnovabili, oltre ad essere intermittenti, hanno costi associati, per l’adeguamento della rete e per i sistemi di accumulo (l’enel stima in 6 miliardi l’anno per un decennio) che finiranno probabilmente in bolletta ed è forse giusto dirlo. Il futuro è questo, non c’è dubbio. Ma bisogna arrivarci ed evitare che crisi nei prezzi dell’energia (dei fossili, mai consumati come in questi anni, avremo bisogno purtroppo ancora a lungo) ci facciano fare altri passi indietro nella decarbonizzazione. È bastato un vento politico gelido, soprattutto dall’est (speriamo non rinnovabile) per travolgere gran parte delle certezze del Green deal.

Fonte; Corriere