L’agricoltura sconosciuta alle élite


MARIO SECHI

Quando non coltivi tutta la terra e addirittura ti pagano per non seminare o, peggio, per “espiantare”, c’è più di qualcosa che non va. Torno indietro con la memoria al recente passato, due flashback.
Il primo, in Parlamento, il passaggio di un discorso di Mario Draghi, alla fine di marzo del 2022, quando disse che bisogna «coltivare tutta la terra».
Il secondo, al Quirinale, quando fu varato il governo Meloni, con l’istituzione del ministero dell’agricoltura e della sovranità alimentare.
Nel primo caso il radar degli intelligenti a prescindere era spento e non si accorsero dell’importanza di quella frase di Draghi; nel secondo caso, il gruppo di teste lucide cominciò a sbeffeggiare la destra sovranista e non sapeva che la formula ministeriale era ispirata dalla Francia dove c’è il Ministère de l’Agriculture et de la Souveraineté alimentaire. Mon Dieu, fanno come Macron, e ora come facciamo?
Sono trascorsi quasi due anni dal discorso di Draghi, Meloni governa da oltre un anno, mentre rapida come un fiammifero nel buio si è accesa la protesta degli agricoltori contro l’Unione europea. Cosa è successo?
La Politica Agricola Comune è nata nel 1962, era la risposta di un altro mondo a problemi che riguardavano soprattutto l’equilibrio tra le produzioni e la vocazione agricola dei vari Paesi dell’Unione. Nel corso dei decenni i cambiamenti sono stati profondi, il crollo del Muro di Berlino, la riunificazione della Germania, l’allargamento dell’Ue, l’ingresso di nuovi produttori, l’evoluzione dell’industria, il mutamento degli stili di consumo, 70 anni di pace (sì, come vedremo anche questo fa parte della scena), hanno nutrito una macchina orientata al negoziato nell’Unione. E quello che avveniva là fuori dai confini? Ha cominciato a bussare con forza alla porta di Bruxelles quando si è rotta la pax americana, una minaccia invisibile è comparsa e i cannoni hanno ripreso a tuonare, pandemia e guerra. Così una struttura collaudata per mettere tutti d’accordo anche nel sotterraneo disaccordo agricolo è stata presa in contropiede dalla protesta dei trattori. La politica non ha visto il cambio (…)
(…) di scena. Una vita che seguiva il ritmo lento e regolare delle stagioni, improvvisamente ha subito un’accelerazione: l’agricoltore e l’allevatore catapultati in un’era di shock ambientali e geopolitici, evoluzione tecnologica, mutazione degli stili di consumo, aumento dell’insicurezza alimentare.
Il ritardo si avverte nel linguaggio dei documenti della Pac di Bruxelles, dove c’è l’enfasi retorica sul “verde”, ma la sensazione è che ci sia un totem da venerare (l’ecologismo) e manchi il soggetto: l’uomo, il mestiere del coltivare la terra. Se tutto è desertificato a pianificazione finanziaria, rotazione delle colture, protocollo ambientalista, alla fine si perde di vista il fatto che, come noi tutti, gli agricoltori non vivono nelle medie delle statistiche degli economisti, stanno sopra o sotto, in quella cosa che si chiama realtà.
Secondo la Fao il settore agricolo e zootecnico negli ultimi 30 anni ha perso 3,6 trilioni di euro. Cambiamento climatico, guerra e biosicurezza hanno rivoluzionato l’organizzazione di capitale, terra e lavoro.
Quello che accade nel mercato dell’auto (uno dei settori chiave dell’industria), vale in altre forme per l’agricoltura europea. Nel settore dell’auto ci saranno vincenti e perdenti, perciò diventano inevitabili le concentrazioni tra i “campioni” di varie nazioni. La sfida lanciata dai produttori della Cina e degli Stati Uniti è totale. Nell’agricoltura le soluzioni nazionali sono una briciola nell’oceano della necessità (il reddito degli agricoltori è inferiore di circa il 40% rispetto ai redditi non agricoli), c’è bisogno di un sostegno finanziario senza limiti (prima di tutto culturali, della politica e dei produttori), una visione comune e un’idea su come sfamare il mondo (e noi stessi), senza diventare una delle portate del menu. Si fa molta retorica sul cibo, il problema non è cosa ci dice lo chef in tv, quello che conta accade ben prima che si arrivi a tavola.
La guerra del grano in Ucraina ci ha proiettato nella tempesta del mercato delle materie prime (alimentari e energetiche), il blocco del Canale di Suez provocato dalla crisi nel Mar Rosso ha creato una corsa del prezzo dei container e una crisi nella disponibilità del diesel, con impatto immediato sul costo del carburante per i mezzi agricoli. Quello del contadino non è un mondo arcadico (e arcaico) dove ci sono i pastorelli e Heidi che canta, è un’industria che consuma forza lavoro, è fatica, è materia viva e anima. La presentazione patinata di questo mondo non corrisponde alla vita di chi coltiva i campi, dei pastori che allevano il bestiame, delle famiglie che proseguono una tradizione. Ai tipi metropolitani che commentano le proteste degli agricoltori (sia chiaro: non possono bloccare le strade, è illegale e non fa bene alla loro causa) con sguardo altezzoso e il naso incipriato, va consigliata almeno una settimana in fattoria, non una scampagnata bucolica da bed and breakfast di lusso, ma una sveglia quando ancora il sole è nascosto dietro la collina e il gallo non ha cantato, l’uscita con la brina sui campi, l’accensione del trattore, la mungitura, il controllo del pascolo, del foraggio, la semina, un passaggio sulla mietitrebbia, la polvere, il freddo, il ghiaccio, il caldo torrido, la sete, la raccolta a mano dei frutti della terra, la disperazione di un lavoro che si perde, la siccità, un’alluvione, una pesca delicata, un’arancia succosa, un latte candido, un formaggio che è pura estasi, il grano dorato. Il momento sacro in casa di una persona cara della mia famiglia che oggi non c’è più era uno soltanto e non poteva essere interrotto da nessuno: il bollettino meteo in tv. Tutto il resto poteva accadere in futuro, ma quel che disponeva il cielo domani decideva subito della vita di tutti.
Non è una questione di sussidi, non è la marcia dei trattori, è coltivare la terra.

Fonte: Libero