di Alessandro Maran
Ho visto «La zona d’interesse», il film diretto da Jonathan Glazer che si è aggiudicato l’Oscar per il Miglior Film Internazionale. E adesso, come ha scritto Annalena Benini, voi (che siete già stati al cinema e siete tornati a disagio, con la testa che gira) ed io «abbiamo in comune un disvelamento e uno choc durato due ore ma che dura ancora, e anzi cresce e continuamente ci interroga sulla quotidianità del male e sulla potenza del cinema, che è riuscito a trovare le immagini e i suoni per raccontare qualcosa che nemmeno le parole sanno dire» (👉 https://www.ilfoglio.it/cinema/2024/03/03/news/se-non-avete-ancora-visto-la-zona-d-interesse-non-leggete-e-andate-al-cinema-6306719/).
C’entra ovviamente anche Martin Amis, uno scrittore magnifico (chi non ricorda l’inarrivabile incipit de “L’informazione”? «Le città di notte contengono uomini che piangono nel sonno, poi dicono Niente. Non è niente. Solo un sogno triste. O qualcosa del genere») e c’entra il sonoro, i rumori di Auschwitz, “the sound of annihilation”. Al film è andata infatti anche la statuetta per il Miglior Sonoro, curato da Tarn Willers e Johnnie Burn.
È un film sull’Olocausto ma si vede solo una vittima dell’Olocausto: un prigioniero il cui lavoro è mescolare le ceneri dei morti nel terreno del giardino del comandante tedesco. È incentrato sul campo di concentramento nazista di Auschwitz, ma non si vede mai un treno, o un cane feroce, o un bambino che piange. Si vedono invece perlopiù scene domestiche che ritraggono i familiari del comandante tedesco mentre mangiano, giocano, nuotano e si prendono cura del giardino. Ma attraverso la colonna sonora, gli orrori prendono vita in un modo completamente nuovo. «Qualcosa di nuovo – osserva appunto Annalena Benini – dentro una storia che conosciamo tutti e che non vorremmo conoscere più».
Perché, come scrive Benini recensendo il film, «l’arte arriva e scopre nuovi modi di turbarci, anche di cambiarci, dicendo una verità a cui non sapevamo pensare. Facendocela ascoltare: i latrati dei cani, le urla di esseri umani, il rumore del treno, gli spari di allora, con le armi di allora, rumori di scarponi sul selciato, di soldati, rumore di morte senza mai vedere la morte».
Insomma, il film che vedi riguarda una madre, un padre, i loro cinque figli e il loro cane che vivono una vita idilliaca in una grande casa con i domestici, una piscina e un delizioso giardino. Ma il film che ascolti, unicamente attraverso deboli indizi, ti dice cosa sta realmente accadendo.
«Per tutta la durata del film – racconta la giornalista de Il Foglio – sentiamo quello che accade in un campo di concentramento, cioè sentiamo quello che può sentire una famiglia che vive lì accanto, e a cui i rumori arrivano attutiti dal muro di cinta del giardino e dalle mura domestiche. Noi non vediamo che cosa accade dall’altra parte del muro, ma lo sentiamo, ne veniamo contaminati, e a un certo punto, verso la fine del film, siamo nella cameretta di uno dei figli, un bambino delle scuole elementari, ben pettinato e ben vestito che gioca con i soldatini sul pavimento della sua stanza con la finestra aperta. “Che cos’ha fatto? Ha litigato per una mela. Annegalo nel fiume”. Il bambino sente questo scambio, sente le urla, i latrati, si alza e chiude la finestra. Non vediamo la morte, non vediamo mai le torture, lo scempio, il denudamento, ma vediamo le mogli naziste spettegolare nel tinello dei vestiti che si sono prese, uno di una ebrea che “era alta la metà di lei”, vediamo la moglie di Höss (Sandra Hüller di Anatomia di una caduta) che si prova una pelliccia di visone allo specchio e in tasca alla pelliccia trova un rossetto: se lo prova con voluttà ma di nascosto, perché quel rossetto ha toccato le labbra di una donna ebrea. C’è un insopportabile distacco, un’insopportabile specie di allegria e di trionfo della moglie del comandante, figlia di una donna di servizio, che arriva in visita e le dice “sei proprio caduta in piedi figlia mia”, e lei è orgogliosa di mostrarle il riscaldamento centralizzato, i fiori incantevoli, i materassi comodi da “regina di Auschwitz” (…) E vediamo il fumo che sale dal camino, quindi dal forno crematorio in funzione tutto il giorno, lo vediamo molto nitido per pochi istanti, al di là del muro e contro un cielo livido e allucinato, e intanto ci troviamo dentro un giardino quasi lussureggiante, dove la regina di Auschwitz è estasiata dalla crescita del cavolo rapa che fa tanto bene ai bambini, e totalmente indifferente a tutto il resto. Ci troviamo in una realtà esaltata e bucolica (credo che non userò mai più questo aggettivo spaventoso, una volta terminato questo articolo), in cui il padre amorevole legge le fiabe dei fratelli Grimm, e legge di Hansel e Gretel che riescono alla fine a spingere nel forno la strega cattiva. Questo è troppo, questo è tutto, ed è di una tale potenza grottesca vedere il picnic in riva al fiume, all’inizio del film, che l’orrore del picnic cresce a poco a poco dentro la testa, perché quella scena banale, quella scena idilliaca e appunto bucolica ha bisogno di espandersi nel cervello, di mettersi in connessione con i latrati dei cani e con il rumore degli scarponi sul selciato. Si vedono dei deportati in cammino con le casacche grigie, a un certo punto, mentre Höss gira a cavallo per la campagna alla ricerca di un airone. E quindi sta a noi immaginare, ricordare, sapere, finalmente capire che cos’è la banalità del male: il male estremo e non profondo. Il male ottuso, borghese, diligente, meccanico, ciecamente accettato, il male che si espande tutt’intorno e che diventa una vita normale».
In un episodio di Radio Atlantic (link qui), il sound designer del film, Johnnie Burn, che ha curato il sonoro insieme al mixer del suono, Tarn Willers, fa un’analisi approfondita delle scene chiave di The Zone of Interest. Burn ha raccolto suoni reali dalle strade d’Europa e li ha riproposti per un paesaggio sonoro di crudeltà che accadeva nascosto alla vista. L’effetto è quello di mostrare come gli esseri umani possano effettivamente tenere gli orrori in disparte, anche quando ne sono circondati. “Puoi chiudere gli occhi, ma non puoi chiudere le orecchie”, dice Burn.
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