Michele Prospero
Le elezioni francesi assolutizzano il divorzio tra legittimità (procedure formali) e fiducia. Il voto non si configura come la massima espressione del consenso, ma si presenta come un dispositivo di accettazione del capo che risulta il meno disprezzato dal pubblico
Secondo la vulgata corrente, con Macron che viene riconfermato all’Eliseo, la partita con il sovranismo potrebbe considerarsi chiusa. Le istituzioni semipresidenziali, ancora una volta, hanno sprigionato la loro forza risolutiva rispetto alla emergenza. E, con la riesumazione del malconcio fronte repubblicano, hanno sconfitto la destra radicale. La soddisfazione nell’establishment europeo per l’ennesimo pericolo scampato non deve però sopire la domanda sullo stato effettivo della politica (non solo francese).
Il male di vivere delle democrazie ha ragioni assai profonde. La terapia non si può rinvenire nelle semplici alchimie istituzionali. Queste ultime, anche quando consentono di gestire con efficacia l’alienazione politica di massa, scavano tensioni che solo l’illusione crede di tenere per sempre latenti. Una democrazia degli incoscienti è da considerare quella che festeggia per aver di nuovo acciuffato, grazie alla sapienza selettiva del doppio turno, il distacco elitario dell’inquilino del palazzo mentre nella società le orde barbariche accumulano la maggioranza dei voti.
Il semipresidenzialismo viene celebrato come la più collaudata garanzia di governabilità in virtù del ritrovato magico di una competizione capace di portare al trionfo il leader meno odiato. L’efficacia e la legittimità del sistema entrano in frizione. Conta solo la designazione del capo, il contenuto della domanda sociale è indifferente. Il consenso perde così ogni significato costruttivo-veicolare e diventa una pura accettazione del leader politico che vince perché sul suo nome si misura una minore ostilità. Non essere odiato dalla maggioranza (e quindi non avere una fiducia politica) diventa la condizione per vincere in un regime che esalta l’individuazione del vertice e però di democratico perde anche le valenze simboliche più elementari.
Non gode di una salute di ferro un ordinamento che tradisce la costruttività del principio di maggioranza sino a far retrocedere il sistema nella cinica esultanza dinanzi all’investitura di un capo che si fa largo per la mancanza di alternative percepite come non dissolutrici. Il regime smarrisce l’aggregazione positiva della domanda sociale e si acconcia secondo il gradimento di una minoranza che, acquistando porzioni del fronte nemico, resiste agli assalti e si insedia al potere. Non si scorge una positiva condizione esistenziale nel passaggio dal regime della investitura al regime della sopportazione.
Ogni finzione di rappresentanza evapora: il politico non rappresenta, il voto non istituzionalizza il meccanismo della fiducia con il cittadino. Il potere non esercita una funzione di responsabilità rispetto alla domanda sociale ma, con il voto di accettazione, si separa chiudendosi in un palazzo protetto dalle voci della rivolta. Lo storico Pierre Rosanvallon, dinanzi alla crisi della funzione rappresentativo-elettorale, ha parlato di una pratica di contro-democrazia nella quale la legittimità (procedura elettorale) si separa dalla fiducia. Dopo la de-sacralizzazione del voto come veicolo essenziale della rappresentanza, si avverte la dissociazione della legittimità (procedurale) dalla fiducia (complesso meccanismo di verifica, ratifica, critica). Domina una istituzionalizzazione della condizione di alienazione, intesa da Rosanvallon come “una democrazia durevole della sfiducia che completa la democrazia episodica del sistema rappresentativo abituale”.
La democrazia non verserebbe in una situazione così precaria se fosse vera l’immagine oggi in voga di una “monitory democracy” che, oltre il livello procedurale della legittimazione giuridica, esalta il controllo diffuso e valica la inaridita rappresentanza per attivare le sedi di una informazione critica del pubblico. Alle sfere iperattive, che si mobilitano attraverso una diffusione di responsabilità, si unisce una sterminata zona di apatia o, addirittura, ribellione. Alla perdita di ruolo delle elezioni e della selezione competitiva del ceto politico non subentra una acquisizione di spazi nuovi di responsabilità, con la proliferazione di centri deliberativi e di controllo non eletti e in grado di condizionare, vigilare, criticare.
Le elezioni francesi assolutizzano il divorzio tra legittimità (le procedure formali restano intatte, con episodi di astensionismo che però non inficiano le regole) e fiducia (condivisione etico-politica, assunzione di responsabilità). Il voto non si configura come la massima espressione del consenso, ma si presenta come un dispositivo di accettazione del potere del capo che, nel conteggio delle schede, risulta il meno disprezzato dal pubblico. I meccanismi costituzionali che vietano il vincolo di mandato si convertono così in una condizione di separatezza, in alienazione politica, cioè in un potere chiuso entro un sistema che tende ad essere autoreferenziale.
I teorici della democrazia deliberativa che esaltano le belle pratiche decentrate di discussione stravedono per le dimensioni reticolari di controllo dell’agenda. Molti inneggiano alla cyberpolitica e all’agorà ritrovata grazie alla rete o alle giurie estratte a sorte. E non si avvedono che queste zone di responsabilità e di apertura al dialogo coinvolgono soprattutto i ceti cognitivi che paiono relativamente protetti nell’età dell’incertezza. Attorno alle isole di comunicazione, allo spazio del decentramento discorsivo, crescono le condizioni territoriali di violenza, abbandono, precarietà.
Le elezioni per i parlamenti o per i capi di Stato sono percepite, nelle dure situazioni di disagio, come delle procedure rituali che non scalzano i poteri reali i quali incidono nella vita e nei destini personali e però non sono sottoposti al conteggio del voto. In un saggio intitolato The Rise of the Unelected. Democracy and the New Separation of Powers (Cambridge 2007) Frank Vibert registra il trionfo del modello anglosassone di potere che prevede un restringimento degli spazi della rappresentanza e la contestuale proliferazione delle istituzioni non maggioritarie prive di consenso (se ne contano 200 negli Stati Uniti e 250 in Inghilterra). “Nelle dePer mocrazie moderne”, egli scrive, “gli organi non eletti prendono molte delle decisioni politiche più dettagliate che influenzano la vita delle persone, possono dirimere i principali conflitti di interesse nella società, risolvono le controversie sull’allocazione delle risorse e forniscono persino dei giudizi etici sulle materie più sensibili. Al contrario i politici eletti sembrano spesso mal equipaggiati per affrontare la complessità delle politiche pubbliche, leggeri nella loro conoscenza dei problemi, maestri non della sostanza ma della apparenza e dell’abilità nell’evitare di essere incolpati per i fallimenti pubblici”.
L’ascesa dei nuovi poteri reali, non eletti dai cittadini e però dotati di effettiva autorità (banche centrali, organismi indipendenti di gestione del rischio, enti regolatori economici, autorità etiche, società di revisione), monopolizza le più significative attribuzioni decisionali in nome del sapere e nel deserto della sfera politica affida il compito della denuncia e del controllo ai media o al potere giudiziario. I costi degli illeciti e del discredito delle élite sono misurabili al di fuori del controllo politico, si tengono lontani dalla rappresentanza e vengono accaparrati dal pervasivo circuito mediatico-giudiziario.
Da questo mondo dei nuovi poteri della competenza e della tecnocrazia proviene Macron, che è riuscito in un capolavoro politico: trasformare, attraverso il bagno della acclamazione elettorale, la tecnica in potere legittimo. La rielezione, se conferma la statura della sua leadership tecno-politica, non pare però l’attestazione di una cura solida alle condizioni di crisi organica della Quinta Repubblica. Non si tratta peraltro di una semplice crisi istituzionale-elettorale da maneggiare con dei ritocchi formali, ma di una crisi politica e sociale che coinvolge l’impianto delle democrazie occidentali incapaci di integrazione. affrontarla non servono le alchimie dei modelli dell’ingegneria costituzionale comparata. E’ più utile seguire l’indicazione del politologo Samuel Lipset che, per connettere legittimazione ed efficacia, addirittura si appella alla nozione gramsciana di “densa società civile”. Egli indica nella ricostruzione della politica organizzata, e quindi nella istituzionalizzazione del conflitto di classe, la sola terapia all’anomia, alla sfiducia, alla crisi della democrazia. Lipset scrive che, dinanzi ai processi di sfiducia, “troviamo ampia evidenza del fatto che la forza organizzativa delle classi inferiori di una società è decisiva nel determinare le opportunità per le persone più svantaggiate. Ciò sta alla base di una democrazia liberale. Mancando di risorse finanziarie o economiche, coloro che occupano i livelli più bassi di una società devono fare affidamento sul potere politico se vogliono influenzare il processo legislativo. Secondo la prospettiva della democrazia liberale ogni individuo, non importa quanto ricco, ha uguale peso nell’eleggere i governanti. L’organizzazione, però, è decisiva nel formare le alternative”. Separando il governo dei problemi reali dalla rappresentanza, Macron vince e disarma con abilità la destra radicale. La sua incoronazione avviene però in un vuoto di politica organizzata, con partiti “flash” e poteri personali (per Lipset “i partiti politici devono essere considerati come le più importanti istituzioni di mediazione tra cittadino e stato”). Per questo la sua stessa figura, di capo legittimato per contenere la paura dell’altro candidato, rappresenta una espressione della crisi, non la soluzione della angoscia della democrazia. Il sistema politico conserva le regole del gioco ma non ha più la capacità dell’integrazione, della rappresentazione dei soggetti spaesati, esclusi, sfruttati, sedotti dalle destre radicali.
Fonte: IL RIFORMISTA