L‘antimafia è stata “tradita dalle liturgie”, da una “visione che l’affida ai paladini” e dalla concezione che ne indica la vittoria “nelle aule giudiziarie dimenticando che essa, come diceva Pio La Torre, fa parte di una più generale battaglia per la democrazia”. Franco La Torre, figlio del segretario del Pci siciliano ucciso da Cosa Nostra il 30 aprile del 1982, giunge in una Palermo turbata dall’arresto di uno dei ‘simboli’ dell’antimafia: Daniela Lo Verde, preside in una scuola dello Zen, quartiere palermitano ad altissima densità mafiosa ma abitato, anche e soprattutto, da famiglie decise a non rassegnarsi a un destino criminale. “Vale la presunzione d’innocenza – dice all’AGI La Torre, che richiama in questa intervista concetti sviluppati nel libro L’Antimafia tradita, per Zolfo editore – e allora concentriamoci sul tema dei ‘simboli’ dell’antimafia. Questo tipo di antimafia, che non mi piace, ha bisogno di simboli, di eroi, di ‘paladini’ a cui delegare. L’antimafia funziona se ciascuno di noi decide di fare la propria parte: il cittadino che non va a cercare il favore e lo scambia con il diritto del voto, colui che non si piega al pizzo. Le stesse forze dell’ordine ci ricordano che la mafia non si vince solo con le operazioni di contrasto e repressione. Pio La Torre lo diceva: la lotta alla mafia fa parte di una battaglia più ampia per la democrazia, poiché il sistema di potere politico-mafioso fa strame dei diritti democratici. La nostra parte è fare i buoni cittadini democratici, senza cercare scorciatoie”. La crisi dell’antimafia non deve far dimenticare i propri inizi, che anzi forniscono l’aggancio per riprendere forza e senso della realtà. “Tra la fine degli Anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta – spiega La Torre – c’è un nuovo protagonismo: se prima l’antimafia era agita da sindacati e partiti, adesso le donne, le moglie, e con loro i familiari delle vittime, portano in campo quella che chiamiamo ‘società civile’”. Tra loro vi sono Giuseppina Zacco, vedova di Pio La Torre; Rita Bartoli Costa, vedova del procuratore capo della Repubblica di Palermo Gaetano Costa, assassinato dalla mafia il 6 agosto 1980; Giovanna Giaconia Terranova, vedova del giudice Cesare Terranova; Anna Puglisi, cofondatrice del Centro Siciliano di Documentazione, intitolato a Giuseppe Impastato. “Portano in pubblico – dice La Torre – la memoria, come a Buenos Aires la madri di Plaza de Mayo: ed è un’antimafia fuori dalle liturgie, che documenta denunce e fa proposte concrete”. Cosa sono le ‘liturgie’? “Tutti gli esseri umani – risponde La Torre – vengono ricordati per quello che hanno fatto in vita: padri affettuosi, mariti fedeli, lavoratori diligenti. Le vittime di mafia, invece, le si ricorda solo nell’anniversario del giorno in cui gli hanno sparato, le hanno fatte saltare in aria. Non è che poi non se ne ricordi la storia, ma quella messa a fuoco, nel caso di mio padre, ha fatto sì che egli diventi una vittima di mafia punto e basta, un cacciatore di mafiosi, e questa cosa non è vera”. Franco La Torre – 66 anni, un passato nella Cooperazione internazionale, alla direzione di Radio Blu e in Libera, che lo vide in conflitto con Luigi Ciotti – tira fuori un “paradosso” per spiegare l’approccio del padre nel confronto con la mafia. “Non era lui – sottolinea all’AGI – ad avercela con la mafia, bensì quest’ultima a prendersela con Pio La Torre. Lui si batte per i diritti dei contadini e comincia con i braccianti poveri: si trova di fronte i grandi proprietari terrieri che armavano la mafia perché eliminasse coloro che rivendicavano la terra; ai cantieri navali di Palermo deve fare i conti con una proprietà che usa la mafia come avvertimento per i lavoratori. Ha a che fare, insomma, con un sistema di potere che chiede una impostazione specifica di una lotta, ma mio padre resta convinto che la partita vera non si combatte né in Parlamento né in tribunale, ma nella società. Nella relazione di minoranza del 1976 alla Commissione parlamentare Antimafia Pio La Torre scrive, tra l’altro, riferendosi alle operazioni del prefetto Mori nel Ventennio fascista: “…la mafia non è scomparsa, perché nel periodo fascista ha potuto vegetare all’ombra del potere senza bisogno di compiere gesti particolarmente clamorosi”. E’ verosimile un paragone con ciò che acceda da un trentennio, dall’arresto dei boss seguito alle stragi? “I gesti clamorosi – risponde Franco La Torre – sono un’eccezione nella storia della mafia. Se prendiamo come punto di inizio l’Unità d’Italia, dal 1861 poche volte sono accaduti. Segretezza, omertà: sono queste le caratteristiche di qualcosa che non devi vedere, e fino al 1982 la mafia era ‘un’invenzione dei comunisti’ o un fenomeno antropologico indagato da Giuseppe Pitrè. La mafia ha bisogno di non essere percepita, o percepita come una cosa buona. Ancora, in quella Relazione di minoranza, riportata nel volume ‘L’antimafia tradita’ (Zolfo editore) Pio La Torre scrive: “La mafia compie così una grande mistificazione, utilizzando il malcontento popolare, per fini contrari agli interessi reali del popolo siciliano: essa ha ‘bisogno dell’omertà, per assicurarsi l’impunità nei suoi delitti, e cerca, anzi, la solidarietà dei siciliani. Viene così qualificato ‘sbirro’ chi riconosce l’autorità dello Stato, che è per sua natura nemico della Sicilia: il siciliano non deve riconoscere lo Stato di polizia, anzi si sostiene che da questo Stato, che l’opprime, si deve difendere. In tal modo la mafia riesce a dominare il popolo siciliano ed a giustificare il suo potere extralegale”. Cosa accade oggi, Franco La Torre? “Succede – risponde – che durante l’emergenza Covid vi sono stati fenomeni di welfare mafioso: un sistema parassitario che eroga servizi, dal cibo al lavoro al prestito er un’attività imprenditoriale. La mafia si sostituisce allo Stato. Accade quello che accadeva nel feudo, dove il campiere, in nome e per conto del padrone, erogava servizi”. A fronte di questa, l’antimafia non gode di ottima salute: “E’ stata tradita da una visione che la indica come lotta di eroi, che spesso non si dimostrano all’altezza delle aspettative e quando finiscono male, creano forti scompensi, come accadde con Montante. Tutti si facevano la foto con lui senza approfondire chi fosse. Bisogna togliersi il prosciutto dagli occhi e dalle orecchie e, come diceva mio padre, non guardare al titolo di ingegnere o architetto di qualcuno, ma cercare di comprendere chi sia davvero: da dove viene, cosa fa, cosa ha fatto”. L’antimafia è uno strumento molto importante, di promozione dei diritti, ma spesso usata per far carriera, per autopromozione. “Sciascia – spiega – aveva sbagliato l’oggetto della sua polemica, Paolo Borsellino o Leoluca Orlando, ma aveva ragione”. Pio La Torre leggeva i libri di Leonardo Sciascia? “Tra siciliani, si leggevano. Mio padre, per il resto, amava i film western, quelli sulla frontiera americana. E leggeva molti saggi”.
Alessandro Manzoni scrisse anche un altro libro, la “Storia della colonna infame” sugli abusi nell’amministrazione della giustizia e sulle garanzie: “Certo. Bisogna evitare, ad esempio, di procedere nei confronti di 300 persone – sottolinea Franco La Torre – per poi scarcerarne 200, e bisogna dare rilievo mediatico anche ai proscioglimenti. E voglio ricordare che quando Bernardo Provenzano era alla fine della sua vita, personalmente mi pronunciai per il suo trasferimento a casa, sottraendolo al 41 bis. Lo Stato non deve essere vendicativo, è molto più forte e deve dimostrarlo anche nella saggia applicazione della giustizia. Lo Stato deve garantire il giusto trattamento dei detenuti, dei condannati. Mi rendo conto di essere in minoranza tra i familiari delle vittime, ma la giustizia si chiama ‘giustizia’ e non vendetta, ed è regolata in un paese democratico da norme e garanzie”. (AGI)