AGI – Il nome che Joe Biden avrebbe scelto come candidato vicepresidente doveva rispondere a tre requisiti: donna, afroamericana, e con un profilo abbastanza di sinistra da poter sedurre quel crescente numero di elettori democratici che avevano sognato Bernie Sanders alla Casa Bianca e hanno simpatia per i toni radical di una Alexandria Ocasio-Cortez. Se con i primi due ci devi nascere, sul terzo si può lavorare. Ed è quello che ha fatto Kamala Harris nei nove mesi trascorsi dal suo ritiro dalle primarie dell’Asinello all’incoronazione come vice del candidato democratico alle presidenziali di novembre. In mezzo c’è stata l’ondata dei movimenti di protesta seguiti alla morte di George Floyd, con il loro impatto dirompente su un’agenda politica che sembrava destinata, come altrove, a concentrarsi sulla pandemia di coronavirus.
Per Kamala Harris arriva il momento di schierarsi. La sua campagna per le primarie aveva sofferto di una certa inconcludenza nel volersi proporre come candidato centrista e pragmatico (non era solo per il colore della pelle che si era parlato di “Obama al femminile”) senza far troppo leva sulla sua lunga carriera da tutrice dell’ordine. Come procuratore distrettuale di San Francisco prima e procuratore generale della California poi, Harris aveva fama da dura. Non proprio il pedigree ideale in tempi in cui migliaia di persone scendono per le strade d’America per chiedere di togliere fondi alla polizia.
Un passato da “sceriffo”
Quando Biden emerge vincitore dalla corsa per la nomination e il suo principale problema diventa la scelta del vice, Harris si schiera quindi in maniera netta a fianco del movimento Black Lives Matter, scende in piazza con i manifestanti a Washington e al Senato, insieme al collega Cory Booker, anch’egli afroamericano, è la capofila delle lotte dei democratici contro gli abusi della polizia. I colpi bassi inferti a Biden nel dibattito televisivo del novembre 2019 vengono sportivamente archiviati e da marzo l’ex ‘top cop’ della California si impegna con forza ed efficacia nella raccolta fondi per la campagna elettorale dello sfidante di Trump. A sinistra c’è però chi continua a non amarla.
Anche il giorno dopo l’annuncio del ticket democratico sui siti internet espressione dei circuiti radical statunitensi spuntano articoli severissimi nei quali alla “sceriffa” Kamala viene rinfacciato di tutto: dall’aver ricorso contro una sentenza di un tribunale federale che giudicava incostituzionale la pena di morte all’aver bocciato l’obbligo di body cam sulle uniformi della polizia in tutto lo Stato, dal suo no alle operazioni di cambio sesso per i detenuti transgender alla vicenda di Daniel Larsen, condannato nel 1999 a 27 anni per possesso di un coltello e scarcerato dopo 13 anni in seguito a una sentenza di un tribunale federale che lo aveva giudicato innocente. Sentenza contro la quale Harris fece ricorso adducendo vizi procedurali (Larsen non avrebbe depositato in tempo i documenti che stabilivano la sua innocenza).
Le accuse del New York Times
Ma gli antirazzisti più inflessibili non le perdonano i metodi caparbi con i quali combattè l’abbandono scolastico sia come procuratore distrettuale che come ‘sbirro capo’ del Golden State. I genitori degli alunni che saltavano troppi giorni di scuola rischiavano di essere perseguiti penalmente. Harris fu accusata di aver penalizzato soprattutto la comunità nera con una stretta che, nondimeno, raggiunse i risultati prefissati.
Tali critiche non sono esclusivo appannaggio di qualche giovane e intransigente blogger. Il 17 gennaio 2019 il New York Times ospita un articolo di Lara Bazelon, docente di legge californiana, secondo cui Kamala Harris, durante il suo mandato da procuratore generale, fu spesso “dal lato sbagliato della storia”. Il quotidiano della Grande Mela è tornato sull’argomento il 9 agosto, due giorni prima dell’annuncio di Biden, sottolineando le contraddizioni tra il recente sostegno a Black Lives Matter e un passato nel quale avrebbe talvolta chiuso un occhio di fronte agli abusi commessi dalla polizia.
Il giorno dopo The Atlantic replica con un pezzo di Peter Beinart, il quale rimprovera al collega del Nyt un approccio ideologico e una scarsa comprensione del concreto funzionamento delle politiche di pubblica sicurezza. “Lasciate stare Kamala Harris”, è l’invito, “ha fatto solo il suo dovere”.
Ma Trump, in fondo, la stima
L’ironia è che il New York Times appare condividere la logica del nomignolo attribuito da Trump alla senatrice Harris: “Phony Kamala”, ovvero “Kamala l’ipocrita”. Il capo della Casa Bianca si riferisce però solo alle passate frizioni tra Harris e Biden. Lo staff della sua campagna al momento si guarda bene dallo smentire il nuovo profilo di sinistra assunto dalla senatrice. Anzi, vi fa leva: con lei gli elementi più radicali dei movimenti di piazza prenderebbero il sopravvento, è la narrazione che sta venendo costruita intorno a Harris, per quanto il suo passato racconti un’altra storia. Un altro aspetto ironico è che, in cuor suo, Donald Trump ha stima della vice selezionata da Biden. Non solo meno di due settimane fa aveva dichiarato che sarebbe stata una “buona scelta” come numero due di Biden ma, tra il 2011 e il 2013 donò 6 mila dollari alla sua campagna elettorale, seguito l’anno dopo dalla figlia Ivanka, con 2 mila dollari.
A prescindere dal messaggio veicolato agli elettori, delle contraddizioni dietro la svolta a sinistra di Kamala lo staff della campagna di Trump è pienamente conscio. “Ora sta cercando di nascondere la sua eccellente carriera da procuratore per placare gli estremisti ostili alla polizia che ora stanno controllando un Partito Democratico radicalizzato”, è la sintesi offerta ai cronisti dalla senior advisor Katrina Pierson. Appare garantito che le passate donazioni del magnate a favore di Harris verranno tirate fuori prima o poi durante la campagna elettorale. “È la smentita definitiva alle accuse di razzismo nei confronti di Trump”, osserva ancora Pierson.
Il vero problema sarebbe però se tali contraddizioni, complici le battenti campagne sui social di cui sono specialisti, venissero fatte esplodere a sinistra dagli elementi più estremisti della galassia dem, quelli per cui tra Biden e Trump non c’è poi questa grande differenza. A far capire che simili polemiche non sarebbero benvenute ci ha pensato Ben Crump, l’avvocato della famiglia di George Floyd, che nei primi giorni di agosto ha firmato un pezzo sul sito della Cnn con cui ha espresso il suo sostegno a una candidatura di Harris alla vicepresidenza e, dopo l’investitura, ha pubblicato un tweet in lode della “sorella” Kamala Harris, “Lady Justice” della quale “c’è bisogno alla Casa Bianca oggi come non mai”. Quella dell’avvocato Crump è una voce importante nel movimento per i diritti civili. Non è da escludere che Biden, prima della scelta definitiva, l’abbia ascoltata.
Vedi: La svolta di Kamala, da "top cop" a paladina di Black Lives Matter
Fonte: estero agi