AGI – Di storie, in questi dieci anni, ne abbiamo sentite tante. E in queste ultime settimane, nell’immediatezza dell’anniversario del naufragio della Costa Concordia, anche di più. In documentari, docufiction, podcast, libri sono state raccolte centinaia di testimonianze, ore e ore, pagine e pagine di racconti, di chi c’era, di chi l’ha vissuta sulla propria pelle e ne è scampato. Ma anche di chi, anche se è sopravvissuto, non è riuscito ad andare oltre quella notte, perché nel disastro ha perso una persona cara.
C’è una storia, però, che nessuno aveva ancora raccontato perché i protagonisti erano troppo pudichi per farlo. ‘Pudicizia’, sì, una parola e un atteggiamento desueti che però meglio di qualunque altro rendono il sentimento che ha dominato il ricordo di quella notte e il vissuto di questi ultimi dieci anni.
È il racconto dei nove vigili del fuoco del comando di Grosseto che per primi si calarono all’interno della nave che stava affondando, mentre tutti – letteralmente tutti, anche chi non avrebbe dovuto farlo – ne stavano uscendo. Otto uomini e il loro comandante che entrarono nella pancia fredda e buia di un gigante morente per impedire che portasse con sé altre vite
Una storia che Virginia Piccolillo, inviata del Corriere della Sera, con Luca Cari, responsabile della comunicazione in emergenza del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, ha raccolto nel volume ‘Apnea’, edito da Mondadori (pagg. 138, 18 euro) e da cui la casa di produzione Lux Vide trarrà una serie per Netflix.
Perché ha scelto di raccontare proprio la loro storia?
Perché è inedita: non hanno mai parlato prima pur avendo vissuto quello che altri non hanno vissuto.
Cosa c’è di diverso tra la loro storia e quella delle altre decine di uomini, vigili del fuoco e non, che hanno esplorato il relitto della nave?
Chi è arrivato nei giorni successivi non ha vissuto il pericolo di restare intrappolato nel ventre del gigante. Già il giorno dopo la nave era monitorata, c’erano percorsi e vie di fuga e se la nave si fosse mossa sarebbero stati salvati. Loro no: sono entrati pensando di fare semplicemente una verifica perché nessuno immaginava che dentro ci fosse ancora qualcuno.
In che mondo si sono mossi?
Un mondo in cui si era persa la verticalità e si camminava sulle pareti, tutto era buio e freddo e l’unico rumore che si sentiva era quello terrificante della nave che scivolava lungo la roccia. Un mondo capovolto, dove i corridoi erano diventati pozzi in cui l’acqua saliva rapidamente. Pozzi in cui hanno trovato persone ferite gravemente, paralizzate dal terrore al punto di non essere minimamente collaborative con chi cercava di portarle in salvo. Una situazione in cui era più facile abbandonare gli altri e salvarsi la vita, un pensiero che non ha mai nemmeno sfiorato la loro mente. Oggi dicono che non poteva essere che così, che era il loro lavoro, ma sappiamo che non tutti, quella notte, si comportarono rispettando i dettami delle proprie responsabilità.
Non erano solo loro nove però a prodigarsi per salvare le vite sulla Concordia
Certo, c’erano i soccorritori sulle murate e sulle imbarcazioni intorno al relitto, ma la loro prospettiva, il loro punto di vista non era quella degli uomini all’interno che, a ogni passo fatto su pavimenti instabili e precipizi che si aprivano all’improvviso, si domandavano come avrebbero potuto vivere il resto della vita se avessero lasciato al proprio destino chi poteva essere ancora salvato.
Apnea è una storia di eroismo in una vicenda che ha un pesante stigma di viltà
Qualcuno che ha lasciato centinaia di persone a bordo ed è scappato senza dare indicazioni su come soccorrerli, questo è un fatto. Ma la cosa bella è che in questa storia stranota di viltà e sbruffoneria ce n’è una sconosciuta di grande generosità. E la cosa straordinaria è che noi lo chiamiamo eroismo, ma per loro non è così: sono convinti che è quello che avrebbero fatto tutti
Lei ha seguito per lavoro vicende tragiche come il terremoto in Centro Italia, il disastro di Rigopiano, l’ondata di gelo del 2012 e i roghi degli ultimi anni. Sempre ha trovato i vigili del fuoco al lavoro. Assomigliano agli uomini che ha raccontato?
Tutti i vigili del fuoco che ho incontrato in prima linea sono così. Sono quelli che stanno lì a tirare fuori le persone dalle fiamme, dalle macerie, dall’acqua. Sono persone semplici, appassionate del loro lavoro che nonostante siano malpagate e non vengano mai premiate, continuano a dire che il loro è il mestiere più bello del modo perché salvare una persona riempie la vita. Purtroppo ogni tanto non va bene e rimane loro addosso il dolore degli altri. Anche questa è una cosa che li rende profondi: non hanno quel cinismo che si sviluppa come forma di difesa dal dolore e dall’orrore.
Perché non hanno parlato prima?
Hanno salvato almeno 60-70 persone che senza il loro intervento sarebbero morte. Ma nell’anima hanno un nodo che li lega a quelli che sono morti prima che arrivassero e che potevano essere salvati se solo dalla nave avessero dato prima l’allarme. Gli echeggia sempre questo pensiero nella testa: “potevo salvare anche loro”. Si fanno carico di responsabilità che proprio non hanno.
Tra le persone che hanno salvato ce n’è una che li ha colpiti in modo particolare?
C’era una ragazza, una hostess che stava particolarmente male perché aveva una frattura scomposta e perdeva molto sangue. Era difficilissimo portarla in salvo e si sono inventati un modo fantasioso per riuscirci. Li ha colpiti molto il coraggio di questa ragazza che, quando finalmente è stata portata fuori dalla nave, ha chiesto di fermarsi un attimo: non credeva di poter passare dalla disperazione più totale a rivedere il mare.
Cosa vorrebbero adesso?
Il loro più grande desiderio è rivedere le persone che hanno salvato. Dopo quella notte non hanno più avuto notizie di nessuno.
Source: agi