Di Daniele Manca
Diciamoci la verità: ce lo aspettavamo. Sapevamo e sappiamo che senza la tecnologia, senza quelle scatolette nere che portiamo in tasca o tutto quello che c’è dietro uno schermo in un ambulatorio medico, la nostra vita sarebbe quasi impossibile. Ma sapevamo anche che qualcosa avrebbe potuto incepparsi nel meraviglioso groviglio di fili, memorie e programmi per computer.
È accaduto ieri. Un tassello nel complesso puzzle che governa le nostre vite è venuto a mancare. In molte aree del mondo, Italia compresa, si sono visti aerei rimanere a terra, carte di credito e pagamenti bloccati, Borse, ospedali, banche supermercati funzionare a singhiozzo.
Abbiamo avuto un assaggio di che cosa può essere il grande blackout. La rivoluzione tecnologica è iniziata almeno una settantina di anni fa, perché proprio adesso si materializza l’incubo? Come mai oggi il futuro distopico di una tecnologia che si ribella o semplicemente smette di funzionare diventa almeno in parte realtà?
Certamente perché computer e informatica sono stati pervasivi in questi anni. Accompagnano ogni attimo e atto della nostra vita. O perché, come dice la legge di Roy Amara, uno scienziato della Silicon Valley, «Tendiamo a sopravvalutare gli effetti di una tecnologia sul breve termine e a sottovalutarne quelli sul lungo periodo». Ma la vera risposta è in un’altra parola: interconnessione.
La rivoluzione tecnologica è sì legata ai computer, alla capacità di calcolo e simulazione che è aumentata in maniera esponenziale negli ultimi anni. Ma il cambiamento, quello che ha prodotto il salto di qualità, è stato che alla grande potenza in crescita continua si è associata un’altra qualità importante: la possibilità per i computer di essere messi in rete. Di dialogare tra di loro.
Internet, che non va dimenticato è un protocollo di comunicazione, ha permesso l’interazione tra i vari soggetti. Noi singoli cittadini così come le singole aziende agiamo sempre più in connessione. La comunicazione è alla base delle relazioni tra aziende, cittadini, stati e imprese. Ma rende il sistema sempre più interdipendente.
Succede così che l’aggiornamento di un software negli Stati Uniti, di un programma che, ed è il paradosso, avrebbe dovuto difendere i sistemi informatici dagli attacchi di malintenzionati e cyber terroristi, ha prodotto il blocco dei sistemi stessi. Si tratta di quei «cigni neri», quegli eventi imprevisti che producono grandi danni.
Era già successo con la pandemia. Ed è successo con l’invasione russa dell’ucraina. Ci siamo resi conto di essere impreparati. Quelle città come Londra dove di fatto non si usano contanti e che hanno visto fermarsi per una mattinata i commerci, le persone che ordinano online i farmaci e non li hanno ricevuti, quei supermercati bloccati, i trasporti penalizzati e nel caos, tutto ciò impone prima di tornare al «business as usual» di trovare la risposta a una domanda semplice.
Quanto governiamo di questo enorme «grande fratello» fatto di schermi, computer, sistemi e connessioni che vanno oltre noi stessi come cittadini, come famiglie, imprese, persino Stati? Poco, è evidente. Quando un crac informatico può mettere in ginocchio ospedali, infrastrutture e reti, dobbiamo dirci chiaro che non eravamo e non siamo in controllo di questi processi che semplificano il vivere ma che ci consegnano a un qualcosa di ben poco intellegibile.
Abbiamo l’atteggiamento di chi dice «tutto funziona e continuerà a funzionare così». Purtroppo, è un’illusione. E visto alla luce di quanto accaduto fa sorridere chi si era spinto a prendere in giro l’europa che si è intestardita a dare le regole di governo, la «governance», al nuovo mondo digitale. Anzi spesso si è sentito dire «l’europa fa le regole ma non ha società che possano fare concorrenza alle americane».
Ecco l’altro falso mito. Quello di chi racconta che il mondo del web, di Internet e della tecnologia possa autoregolamentarsi. «Settori come la sanità avevano norme, prassi e basi etiche costruite nel corso di secoli, se non di millenni…» racconta Fei Fei Li, la docente di Stanford definita la madrina dell’intelligenza artificiale nel suo Tutti i mondi che vedo (Luiss University Press). E si chiede quale sia il codice etico alla base dell’ai.
Per questo non può bastare che l’europa agevoli la nascita di altrettanti colossi del web che possano duellare con gli altri big mentre fuori vige il Far West globale. Perché si dimentica un particolare. Le aziende che possiedono questi strumenti così pervasivi e che sovraintendono di fatto alla nostra vita sono soggetti privati. E come ogni azienda, giustamente, tendono al profitto che assicura loro la sostenibilità nel tempo.
Sono le regole però che garantiscono che l’interesse pubblico legato al buon funzionamento di un ambulatorio o di una stazione di treni possa combinarsi con quello del soggetto privato con favore reciproco. Suonano stonate le parole di quelle aziende che minacciano di non fornire i loro servizi proprio perché l’europa pretende il rispetto di regole che sottendano all’equilibrato sviluppo della vita civile. Quasi si preferisse il Far West.
Abbiamo assistito a uno sviluppo vorticoso del digitale negli ultimi 30 anni. Che ha prodotto e produrrà vantaggi che in ogni secondo della nostra vita si materializzano grazie a un computer o a un telefonino. Ma la sempre più profonda interrelazione tra tecnologia, economia e vita di tutti i giorni, richiede una riflessione altrettanto profonda. Pena l’aumento delle nostre fragilità.
Ai primi segnali di blackout, le dichiarazioni che provenivano dalle aziende che erano coinvolte tendevano a negare la possibilità di un attacco informatico. Quasi a esorcizzarlo ma al tempo stesso dando la misura della nostra vulnerabilità. Alla base delle regole c’è la trasparenza. Chissà se riusciremo a spiegare a chi è rimasto bloccato in un aeroporto almeno che cosa è davvero successo ieri. Se non altro perché non si ripeta.
Fonte: Corriere